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Kalashnikov

Tabù, icona, metafora dei nostri tempi. Dopo oltre 60 anni, negli Urali non si produrrà più l'AK-47

17 Novembre 2011

«L’odore dei fucili, dovendo pulirli, l’odore dell’olio dei kalashnikov è come quello di cui si parla in Apocalypse Now a proposito dell’odore del napalm al mattino. Se non siete stati in guerra non potete capire quello che voglio dire. Non avete mai annusato quell’odore…». Parola di Nassim Nicholas Taleb, operatore di borsa e filosofo, autore del best seller Il Cigno Nero, ossia “come l’improbabile governa la nostra vita”. Quel ricordo dell’odore dell’olio dei kalashnikov fa parte di un’altra vita, di quando, adolescente, veniva addestrato come giovane miliziano cristiano nella guerra in Libano. È la sua madeleine.

È un ricordo che condivide con molti. Dal 1947, quando Mikhail Kalashnikov concepì l’Avtomat Kalashnikov, è divenuto il più diffuso fucile d’assalto del mondo, l’arma da fuoco più utilizzata nelle guerre, simmetriche o asimmetriche, della nostra epoca. In tutto sembra ne siano stati prodotti circa 70 milioni.

È anche per questo che nel settembre scorso il capo di stato maggiore russo, il generale Nikolai Makarov ha annunciato che non ne saranno più acquistati. «La dotazione dell’arsenale nazionale supera di una dozzina di volte il necessario» ha detto. In realtà l’arma di cui parla il generale è l’AK-74, ossia un AKM modificato, che a sua volta era una variante più moderna (Modernizirovanniy) dell’AK-47. La decisione potrebbe essere il colpo di grazia per la Izhmash, la fabbrica di Izhvesk (negli Urali) che produce armi dal 1807, già segnata dalla crisi finanziaria e dall’insuccesso sul mercato internazionale dei suoi ultimi modelli: l’AK-97 e l’AK-100.

In un certo senso la vicenda può essere letta come una metafora dei tempi, del crollo dei miti, come l’ennesimo dei cigni neri teorizzati dallo stesso Taleb, generati a loro volta dalla complessità esponenziale dei fenomeni contemporanei.

Uno dei motivi del successo dell’AK-47, del resto, era proprio la sua semplicità. Non era il più veloce, il più preciso o letale dei fucili. Ma il più pratico, composto di sole otto parti mobili, il più funzionale. Che poteva essere smontato e rimontato in pochi minuti e riprendere a sparare dopo essere stato sommerso dall’acqua, impregnato di fango, esposto al fuoco o alla sabbia. Come dice l’attore Nicholas Cage nella parte del mercante d’armi Yuri Orlov del film Lord of War: «È tanto facile che anche i bambini possono usarlo. E lo fanno».

Ma soprattutto l’AK-47 è un mito della nostra epoca. In questo senso è stato oggetto di un saggio del reporter americano Michael Hodges: AK 47, the story of a gun (pubblicato in Italia dall’editore Tropea: Kalashnikov, il fucile del popolo. Scenari di un’arma senza frontiere). Per Hodges il kalashnikov, “dall’inconfondibile silhouette” è “la Coca Cola delle armi leggere”. È un marchio globale e come tale “è privo di morale o regola etica, il puro simbolo di una scelta di vita”. Una “scelta di vita” che, secondo Hodges accomuna guerriglieri palestinesi, ribelli ceceni, signori della guerra somali, mercenari di tutto il mondo, le gang americane. Adottato non solo per le sue caratteristiche tecniche ma proprio perché si è “caricato” di simboli, di valenze politiche, religiose, sociali. Un’epopea iniziata con la guerra in Vietnam ma, che, paradossalmente, ha trovato canonizzazione nei manifesti dei film di Rambo che mostravano l’eroe reaganiano impugnare un Kalashnikov.

Secondo Hodges, quindi, l’AK-47 “si è insinuato nella coscienza planetaria” tanto da diventare uno strumento della storia stessa. Forse per questo, quasi potesse contagiare le coscienze, nel mondo del politicamente corretto, il Kalashnikov, benché in estinzione, è divenuto un argomento tabù.

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