Attualità

Alle macchine vogliamo bene

Cosa si prova a vendere la propria auto? Breve storia di una separazione difficile.

di Davide Coppo

Dopo aver firmato ho dovuto domandare: «Finito?». L’impiegato dell’agenzia di pratiche automobilistiche mi ha detto sì, certo. La mia prima e finora unica automobile, quella che ho guidato negli ultimi tredici anni, non era più mia nel giro di trenta secondi. Sono tornato di fronte all’officina meccanica in cui era parcheggiata, impolverata da un intero inverno di abbandono su un marciapiede, l’ho svuotata di quello che mi sembrava meritevole di essere salvato: una cartina impermeabile della Corsica, alcune ricevute di traghetti greci da tenere come ricordo, un asciugamano sporco di grasso nel bagagliaio. Mentre scrivo mi accorgo di aver dimenticato l’elefantino rosso portafortuna. Il portacenere era ancora pieno di cicche di sigarette e noccioli di albicocca. Sotto i sedili bottiglie vuote di acqua e birra. Il meccanico che aveva attaccato al muro fuori dall’officina il cartello, scritto a pennarello, “SI COMPRANO MACCHINE USATE”, mi ha detto che non sa ancora se metterla a posto o farla a pezzi e venderli separatamente. «Una volta tutte queste macchine», intendendo quelle, come la mia vecchia Ford Fiesta, vecchie e scassate, «si vendevano in Est Europa. Adesso non le vogliono più nemmeno là».

La mia ormai ex macchina non ha mai avuto un nome. Non sono uno che nomina le cose, come le piante o le biciclette. Lo trovo stupido. Questo non significa che non abbia mai sviluppato un legame affettivo con oggetti incapaci di sentire, come appunto questa Ford Fiesta immatricolata nel 2002. Era l’auto di mia madre, e contestualmente è diventata l’auto su cui ho preso la patente. La mia famiglia viveva fuori città, quindi gli anni – gli ultimi – del liceo e i primi di università facevo la spola, quasi ogni sera, tra casa e i bar di Milano, su quella Fiesta. Spesso bevendo troppo, spesso guidando troppo veloce. A 22 anni mi trasferii a vivere con un amico in città, e la Ford venne con me diventando la mia macchina. Il suo livello di pulizia cambiò radicalmente, la resistenza dei freni e della frizione messe a dura prova. Pneumatici esplosi, graffi, buchi di sigarette nei sedili.

Ho fatto un’ultima foto all’auto e l’ho postata su Instagram. Nel giro di pochi minuti avevo ricevuto tre messaggi privati. Il primo era di un ex coinquilino della mia vecchia casa da universitario, che aveva condiviso con me viaggi brevi e meno brevi su quella macchina. Il secondo era di un altro amico. Il terzo di una ex fidanzata di anni ancora precedenti, quando non avevamo case nostre in cui passare il tempo liberamente, e i sedili della Ford, di notte, erano la cosa più comoda e intima che potessimo trovare. Nel giro di poche ore stavo avvisando altri amici che avevano “vissuto” la vecchia Fiesta. I messaggi di risposta, a volte, contenevano semplicemente l’emoji di un cuore.

Ci sono vari studi – tutti americani, quelli in cui mi sono imbattuto – che testimoniano come sia comune che i proprietari si sentano “legati” alle loro automobili, e provino tristezza al momento dell’addio. Negli ultimi anni utilizzavo l’auto meno di una volta al mese, più spesso soltanto d’estate, quando nei fine settimana guidavo fino alla casa al mare, in Liguria. Prima, quando ancora giocavo a calcio, la guidavo per andare al campo, ogni lunedì sera. Ma mi sono sempre spostato in bicicletta, in città. Odio il traffico e anche la sera l’idea di dovermi fermare ai semafori rossi e rispettare sensi unici mi ha sempre reso insofferente. La vecchia Ford non era un piacere da guidare: il motore beccheggiava se non lasciavo la frizione con una sensibilità particolare, l’accelerazione era deprimente, in autostrada, oltre i 110 all’ora, tremava come un monoelica in mezzo alle nuvole. Eppure per mesi sono stato bloccato all’idea di venderla, e al momento della firma dell’atto ho provato, effettivamente, tristezza e malinconia. Una spiegazione veritiera e comune è che tendiamo, come specie, ad antropomorfizzare tutto ciò ci circonda, mezzi meccanici compresi. Ma c’è anche qualcosa di più: un’auto, e la mia vecchia Ford non ha fatto eccezione, è anche un contenitore di storie.

Praticamente ogni persona che ha lasciato un segno nella mia vita è passata da quella macchina: fidanzate, amici, parenti. Viaggi, incidenti, traslochi. Poco prima del matrimonio di due tra i miei più cari amici, di cui fui testimone, mi accartocciai contro un muro a cento all’ora. Non so nemmeno oggi come sia successo. Probabilmente avevo bevuto, più probabilmente mi addormentai. Era notte, e per quasi 12 ore fui irrintracciabile, in ospedale, svenuto o addormentato. La macchina si era rovinata quasi irrimediabilmente, e spesi troppi soldi per salvarla e rimetterla in sesto. Verso sera, quando tornai a casa, trovai un gruppo di amici riuniti, stupiti e sollevati di vedermi, arrabbiati e contenti. Non sapevano che fine avessi fatto, e io non mi ero reso conto di niente, nello shock per l’accaduto. Fu strano, ma bello. Una volta rimessa in sesto l’auto, non la utilizzai più dopo il tramonto.

C’è di più: la conoscenza intima della meccanica dell’auto e del suo comportamento, delle sue debolezze e dei suoi punti di forza. Sapevo come addomesticare i capricci del suo motore scarso e impacciato, sapevo come trattar male la frizione per darle un’accelerazione in grado di scattare davanti a tutti ai caselli o ai semafori, sapevo essere delicato quando la temperatura del motore si alzava d’estate. I difetti aumentano l’affetto perché accrescono, di pari passo, la conoscenza intima della meccanica, o un’interpretazione più umana della meccanica: impariamo a regolare gas, freni e frizione empiricamente, come se stessimo addomesticando l’auto, come se fosse un’entità senziente e cocciuta da rendere gentile e amica. Mentre mi allontanavo dalla Ford lasciandola a mani che non conosco, che non conosce, che non la conoscono, ho pensato a un’altra cosa: mi sono augurato che alla fine, a una seconda analisi, i pezzi della mia Fiesta non andassero bene per essere rivenduti, staccati, uniti ad altre macchine. C’entra un po’ di cattiveria, un po’ di invidia, un po’ di gelosia. Una reazione umana.