Per Valeria Bruni Tedeschi, un film noioso è peggio del diavolo

Al cinema con due film, Duse e L’attachement – La tenerezza, l'attrice ci parla di figli, di Eleonora Duse e del bar nel quale decide se accettare o no una parte.

14 Ottobre 2025

A Valeria Bruni Tedeschi non piace la noia. Dice che è il male. Anzi, dice che è il diavolo. Riconosce il valore della solitudine e riconosce pure la spinta che il senso di vuoto, talvolta, può dare. Ma la noia no, non riesce proprio a vederla come una cosa positiva. In un certo senso invidia Sandra, il personaggio che interpreta ne L’attachement – La tenerezza, il film di Carine Tardieu al cinema con No.Mad Entertainment: un film intenso, che parla di lutto, di perdita, di accettazione; che avvicina una donna che non ha mai avuto figli a due bambini piccoli e che ci ricorda il nostro desiderio di sentirci amati. La invidia perché sembra non avere bisogno di nessuno. Ripete che è libera da qualunque cosa, a cominciare dalle etichette. Per interpretarla, ha provato a indagare sulle ragioni di Sandra: quello che la muoveva, ciò che la terrorizzava.

Con Eleonora Duse, che interpreta nel nuovo film di Pietro Marcello, al cinema con Piper Film, ha stretto un rapporto diverso: ha incontrato un’amica, qualcuno in cui vedersi e riconoscersi; qualcuno che porta avanti il fuoco del lavoro. Raccontarsi agli altri, spiega Bruni Tedeschi, è un modo per conoscere meglio sé stessi: più si parla e più si scoprono cose di cui, precedentemente, ignoravamo l’esistenza. La tenerezza, sottolinea, sta nell’assenza di giudizio; sta nella capacità enorme, dolcissima, del saper ascoltare l’altro senza volergli dare consigli.

«Quando affronto un personaggio», ha detto in un’intervista a Vanity Fair, «la prima cosa che cerco è la sua solitudine». Allora le chiedo: che tipo di solitudine è quella di Sandra, il personaggio che interpreta ne L’attachement – La tenerezza?
È una solitudine che ha scelto e che ha abbracciato completamente. Sandra è una donna tranquilla e a suo agio nella vita che si è creata; ha deciso consapevolmente di condurre un’esistenza solitaria, e non sembra minimamente soffrirne. Dietro questa solitudine serena, io ho cercato il motivo che ha spinto Sandra a vivere così.

E che cosa ha trovato?
Una sorta di ferita, qualcosa da cui Sandra voleva proteggersi. Mi è sembrato che avesse una sorta di corazza attorno a sé. Una corazza sottile che non si vede, a suo modo delicata. Ma comunque una corazza. Le è servita per difendersi dalla paura di essere abbandonata. È su questo che ho provato a lavorare.

La solitudine, secondo lei, può essere un motore creativo?
Penso che sia importante vivere un po’ in solitudine per essere creativi, sì. Bisogna avere dei momenti in cui si rimane da soli con la propria intimità e in cui si riesce a entrare in contatto con sé stessi.

Tra i momenti più belli e intensi de L’attachement – La tenerezza ci sono i dialoghi che ha con il piccolo César Botti, che interpreta Elliott.
Non abbiamo mai improvvisato; abbiamo sempre seguito la sceneggiatura. César conosceva la sua parte per filo e per segno. Allo stesso tempo conservava la sua naturalezza. Io non l’ho mai trattato come un bambino, non ho mai provato a sostituirmi a sua madre, proprio come Sandra non prova a sostituirsi alla madre del suo personaggio. Quando dovevamo recitare l’ho trattato come un adulto. Non le nascondo che aveva una grande professionalità. È stato perfetto. E poi penso che lo scambio intellettuale con i bambini sia molto interessante. Anche Sandra, secondo me, era molto curiosa durante le sue discussioni con Elliott. E la capisco.

Perché?
Se facessimo più attenzione a quello che dicono i bambini, penso che interiormente saremmo più ricchi.

In questo film, poi, si arriva a una definizione differente, più ampia e meno scandita, di maternità.
Sandra non vuole avere questa etichetta; non vuole essere madre. Questo, ovviamente, non esclude la tenerezza, l’attenzione e la delicatezza. Sandra non vuole avere un ruolo specifico. E non riguarda solo l’essere madre. Sandra non vuole essere nemmeno moglie o amante. Non ha rapporti fissi con gli uomini. Ha fatto di tutto per togliersi queste etichette. Ed è lo stesso obiettivo del film: eliminare qualunque distinzione o categoria assoluta. Credo che sia una cosa che fa bene alla gente, che le permette da respirare. Viviamo in una società in cui per liberarci dall’angoscia ci mettiamo costantemente etichette. Però in questo modo non facciamo altro che creare ancora più angoscia. Finiamo per imprigionare noi stessi. Molto spesso ci convinciamo di essere quello che gli altri pensano di noi. Ma ciò che ci lega davvero, e il sottotitolo del film è particolarmente significativo, è la tenerezza. Perché è questo quello che ci può avvicinare gli uni agli altri, proprio come succede ai personaggi del film.

Come ha trovato questo ruolo? Conosceva già la regista, Carine Tardieu?
No, non la conoscevo. Non bene, almeno. La conoscevo un pochino. Entrambe abbiamo adottato i nostri figli, e io l’ho aiutata a trovare contatti e a capire come muoversi. Ci si aiuta a vicenda, in certe situazione. È una specie di solidarietà. Però non ci conoscevamo. Solo a un certo punto ci siamo viste per andare a bere una cosa e parlare del film. Devo dire che l’incontro al bar, per me, è decisivo. Se mi annoio al bar non faccio il film. Anche se la sceneggiatura è meravigliosa e il ruolo mi interessa, giuro che non ci riesco. La noia è il diavolo per me.

La noia, a volte, non può essere anche una risorsa?
Se intende la noia della vita, sì. Quando i bambini si annoiano, per esempio, sono creativi. E lo stesso, in certe situazioni, si può dire anche per gli adulti. La noia ci può spingere a fare qualcosa. Ma è il senso di vuoto a essere una risorsa. Non la noia. La noia non mi fa provare felicità.

Tutte le storie, ha detto, finiscono per avere qualcosa di autobiografico. Che cosa c’è di autobiografico ne L’attachement – La tenerezza?
Ammiro molto Sandra. Vorrei essere come lei.

Sotto quale punto di vista?
Sandra non vuole niente dagli altri. Per me, invece, non è così. Mi ha fatto piacere poterla interpretare ed essere come lei, così indipendente e così sicura, per un po’ di tempo. Forse questo film è autobiografico nella conoscenza che io e Sandra condividiamo di certi rapporti con gli uomini. A volte, malgrado la presenza di sentimenti amorosi, è meglio rimanere amici. È una cosa che so molto bene. Mi capita spesso di trasformare gli amori in amicizia perché credo che sia meglio così. Ho una specie di saggezza in questo ed è una saggezza che ho in comune con Sandra.

Sandra fa la libraria: vive tra i libri e gli scaffali. A lei piace leggere?
Mi piace, sì. Anche se ultimamente non ho più così tanto tempo. Ed è un peccato. Sa, a volte, in certi periodi, si provano delle preoccupazioni così intense e concrete che viene difficile leggere un libro. Però rimane il piacere della lettura e dei libri. Anzi, le dico una cosa: per me entrare in una libreria è un po’ come entrare in una pasticceria.

Dove sta la tenerezza per lei?
La provo ogni giorno con i miei bambini, con le persone che amo, anche se non è sempre fisica. I figli crescono e diventa difficile ritrovare lo stesso contatto e la stessa vicinanza di quando erano piccoli. La tenerezza può essere nelle parole e in un tono di voce; la tenerezza vera sta nel saper dire all’altro: ti capisco. Dire a qualcuno una cosa del genere, senza giudicarlo, senza dargli consigli, è bellissimo. Davanti al dolore e all’angoscia degli altri, non ci sono sempre lezione da dare. Spesso tutto quello che serve è questo; è dire: io ti capisco; io ti sento.

Antonio Capuano mi ha detto che i figli salvano.
Non bisogna avere per forza dei figli per salvarsi. La mia vita, però, è indubbiamente molto più allegra e piena grazie ai miei figli. Ha decisamente più senso, ecco. E forse riescono a salvarmi dall’egocentrismo. Non del tutto, per carità. Ma un po’ mi salvano. E poi volevo dire un’altra cosa. In questi giorni, al cinema, c’è anche Duse di Pietro Marcello. È un film estremamente importante per me. Così com’è stato estremamente importante l’incontro con Pietro. Penso che questo film, di cui sono veramente fiera, sia un gesto cinematografico forte, originale e pieno di fuoco. E oggi abbiamo bisogno di fuoco.

Come definisce questo fuoco?
È il fuoco del lavoro. Noi abbiamo bisogno di lavorare tanto quanto abbiamo bisogno di ossigeno.

Interpretare Eleonora Duse le ha permesso di conoscersi meglio?
C’è stato come uno scambio tra lei e me, come se avessi incontrato una nuova amica. E quando si conosce una nuova persona, si finisce per conoscere meglio anche sé stessi. Perché ci si racconta all’altro e raccontandosi impariamo nuove cose su di noi.

Come sarebbe andata al bar con Eleonora Duse?
Penso che avremmo riso. La Duse, contrariamente a quanto si crede, era una persona incredibilmente ironica e divertente.

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