La situazione americana è gravissima e preoccupa il mondo intero. Ma, allo stesso tempo, è possibile non vedere quanto tutto quello che viene dagli Usa oggi sia... grottesco?
C’è quella di un americano dice ad un russo: l’America è così libera che io posso stare di fronte alla Casa Bianca a urlare “Ronald Reagan vai all’inferno”. Il russo risponde: Figurati. Anch’io posso andare davanti al Cremlino ed urlare: “Ronald Reagan vai all’inferno”. Poi c’è quella dell’uomo che entra in un negozio in Russia e chiede: “Non avete la carne?” “No”, risponde la commessa, “noi non abbiamo il pesce. Il negozio che non ha la carne è dall’altra parte della strada”. Queste sono alcune delle battute che Ronald Reagan faceva da Presidente, un po’ soft power e un po’ puro spirito performativo da ex attore di western. Ma era anche un modo per ammiccare all’Urss a cambiare il metodo di confronto, un modo per abbassare i toni. Un modo cauto per parlare della grande divisione che spaventava la gente – la spada di Damocle dell’atomica – mentre i diplomatici lavoravano nell’ombra organizzando l’incontro a Reykjavík. “Mr Gorbachev, butta giù questo muro!”. Lo show e dietro le manovre, un tandem con un obiettivo chiaro: aprire al dialogo e arrivare allo scardinare la Cortina di ferro.
Oggi le battute di Reagan – suo malgrado modello spizzichi e bocconi del mondo Maga – sembrerebbero dei dad joke, roba che nemmeno si meriterebbe la viralità di una clip di TikTok (c’è un Vhs alla library of Congress con tutte le sue battute dal titolo “Stand up Reagan”, antenato degli special di Netflix). Oggi quello che siede nello Studio Ovale al posto di Reagan usa come metodo diplomatico lo shitposting. Come biasimare Donald J. Trump se in fondo è anche uno dei metodi che da star di un reality l’hanno portato alla Casa Bianca – certo ci sono anche i miliardi di Musk, i podcaster, il Gerrymandering, le influenze russe sui social, l’inflazione, i migranti e gli errori del partito democratico – ma sono i suoi insulti ai colleghi repubblicani nelle primarie del 2016 ad avergli dato la prima visibilità politica che l’ha lanciato.
La politica dello shitposting
Allora il sito Daily Dot definì lo shitposting politico come una «provocazione deliberata orchestrata per il massimo impatto con il minimo sforzo», a guardare i profili social della Casa Bianca oggi non c’è definizione che calzi meglio di questa. C’è stato l’agguato a Zelensky, con il vice J. D. Vance che lo rimprovera dicendogli “non ci hai mai detto grazie” (diventato poi un meme, faccione tondo e labbrino e leccalecca oversize) e i commenti su come si era vestito. Il video fatto con l’AI che esponeva il progetto della Riviera di Gaza. E poi l’altra imboscata al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, a cui ha mostrato un video (falso, e delle foto altrettanto false) per far vedere come soffrono i bianchi in Sudafrica, parlando dei contadini bianchi uccisi e perseguitati dai neri.
Che sia per filo-putinismo o per ammiccare al white power in cui crede una parte della base trumpiana, con Trump il viaggio diplomatico muore. Al massimo si va da lui, come si andava un tempo dagli oracoli, a portare il proprio rispetto, chiedendo qualcosa in cambio di qualcos’altro, un sacrificio in cambio di dazi più bassi, una lavata di capo in cambio di una promessa di supporto in guerra. Trump agisce sempre al sicuro a casa propria, in uno Studio Ovale sempre più rococò, che diventa il castello di smeraldo del mago di Oz.
Se Reagan ironizzava con un fine, il trashposting verbale di Trump sembra solo destinato ad apparire più forti. Un modo da bulli, da troll. Quando ancora si credeva in una separazione tra internet e real life (o RL, come si abbrevia sui social), di fronte all’insulto esagerato di un anonimo sotto un post si diceva: vedi se poi dal vivo le dici queste cose. Si parlava di “leoni da tastiera”. Ora i leoni sono usciti dalla gabbia di Meta. Il troll esiste al bar e alla Casa Bianca. Il Lesotho diventa una nazione «di cui nessuno ha mai sentito parlare», il Canada è caldamente invitato a essere il 51esimo stato, la Groenlandia è un terreno da conquistare, Haiti e i Paesi africani sono «shithole countries», cioè Paesi di merda, l’Europa è parassita, i suoi abitanti scrocconi.
Per il Lol
Non c’è più il filtro tra quello che si pensa e quello che si dice – parlare alla pancia del Paese, quello che piace ai fan di Trump – e un atteggiamento unhinged ormai normalizzato. Se Taillerand era un camaleonte, Trump è un elefante capriccioso in una cristalleria, che a volte sembra regalare ai suoi fan un insulto al nemico straniero per il lol, come si dice nella cultura internettiana. Complottismi, teorie da rabbit hole, hanno infiltrato la diplomazia di Pennsylvania Avenue. Gli uomini che sussurrano al Presidente sembrano sempre più uscire dai podcast di Joe Rogan, o da una riunione della John Birch Society. Da un lato approccio elementare – se non lo conosco è un Paese inutile – e dall’altra dietrologie nello spirito QAnon, dove c’è sempre qualche potere pronto a fregarti, oltre al perenne retropensiero Maga: l’America ha dato troppi soldi agli altri, ora ce li riprendiamo.
Tutto è cambiato nel rapporto con la percezione, e questo ha un effetto nella diplomazia. Se i crimini delle guardie di Abu Ghraib e di Guantanamo diventavano un’onta per l’amministrazione Bush, oggi la segretaria della sicurezza interna Kirsti Noem va a El Salvador a farsi i video da Reel nelle mega prigioni per terroristi, dove vanno a finire – legati e rapati – gli immigrati con i tatuaggi che assomigliano a quelli di una gang venezuelana. La diplomazia trumpiana, e una visione del mondo cha va dall’isolazionismo all’imperialismo all’amore per i sultani mediorientali, si basa sul transazionalismo. Il ragionamento è “io do questo a te e tu dai questo a me”. Non si pensa al dopo. Non si pensa alla reputazione. Al massimo ci si guadagna – Trump, non gli americani – un aereo dal Qatar, o investimenti nelle crypto di famiglia.
Gli strumenti più importanti della diplomazia di lungo corso vengono eliminati con una firma. Il soft power muore con la distruzione degli aiuti umanitari all’estero, della solidarietà per le altre democrazie e della difesa dei diritti umani, dimenticandosi che non ci sarebbe stato il Nando Moriconi di Un Americano a Roma senza il Piano Marshall.