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Troppa cronaca nera?

Tutto è cominciato con il plastico della villa di Cogne: all'epoca l'ossessione per la cronaca nera veniva definita morbosa, oggi la chiamiamo true crime ed è uno dei nostri passatempi preferiti.

di Arnaldo Greco

È il 26 settembre 2007, in una puntata di Porta a Porta, Bruno Vespa mette al centro dello studio una bici apparentemente identica (ma i filologi della cronaca nera scuotono la testa) a quella che si è appena scoperta essere un elemento essenziale per scoprire la verità sul delitto di Garlasco e sui giornali, così come in rete, scoppia un putiferio.

Ecco cosa ne scrive Aldo Grasso sul Corsera: «Quest’anno va in onda il «Garlasco show». «Dove vola l’avvoltoio? Avvoltoio vola via, vola via dalla testa mia…». Quando nel dopoguerra Italo Calvino scrisse questa canzone conosceva il male del mondo ma non aveva ancora potuto assistere a una puntata di Porta a porta o di Matrix o di altre trasmissioni televisive. Su cui, da un po’ di tempo, volano volentieri gli avvoltoi. Ogni estate porta in retaggio un delitto irrisolto, una provvista per il lungo inverno televisivo. E infatti, non appena ricomincia la stagione, l’efferato delitto si trasforma subito in spettacolo. Quest’anno, appunto, va in onda il “Garlasco Show”. Archiviati il “Cogne Show”, l'”Erba show”, il “Novi Ligure show”, la compagnia di giro dell’illustre cavalier Vespa si è subito buttata sul corpo della povera Chiara Poggi».

E TvBlog: «Io me lo immagino: “Il plastico l’ho già fatto per Cogne, la mappa tridimensionale di casa Poggi ce l’ho già. Fotomontaggi no, c’hanno già pensato le gemelle Cappa. Una caricatura di Stasi? La mappa della caserma dei carabinieri? Una controfigura di Chiara Poggi piena di sangue in studio? No, forse questo è esagerato…“. E ad un tratto, l’illuminazione: “La bicicletta! Sì, piazziamo in studio una bella bicicletta e mostriamo ogni particolare possibile… disegniamo qualche macchietta rossa qua e là. Magari faccio intervenire Crepet e il criminologo Bruno per parlarne”. Peccato che le biciclette nere da donna le avessero terminate. Da uomo tanto va bene lo stesso, no?».

Sono giusto due esempi, ma che interpretano un sentimento molto diffuso, una stanchezza che per molti è addirittura repulsione verso l’eccesso di cronaca nera in tv e sui giornali. Le parole chiave sono “spettacolarizzazione” e “morbosità” e prendono addirittura una connotazione politica. I centri studi registrano, negli anni del governo Prodi, un raddoppio (dal 10,4 per cento del 2003 al 23,7 per cento al 2007) del tempo dedicato dai tg alla cronaca nera e il centrosinistra accusa i media di aver soffiato sulla paura («Purtroppo ce ne siamo accorti a spese degli italiani», dice Sandra Zampa, allora portavoce del Presidente Prodi), mentre i media si giustificano dicendo che lo fanno solo perché è ciò che interessa realmente alle persone («è aumentata l’attenzione per la cronaca nera, non solo quella che crea insicurezza. I grandi casi – Cogne, Erba, Garlasco – aumentano gli ascolti», dice Mario Giordano, allora direttore di Studio Aperto). Ma che sia un’insofferenza di sinistra o bipartisan cambia poco, è un’insofferenza manifesta che trova sfogo negli editoriali e nei commenti, nell’ironia e nella satira più feroce.

Sono passati circa vent’anni e – mi pare – che di quel sentimento sia rimasto ben poco. Se ancora la cronaca nera ha dei detrattori, beh, si nascondono bene. E se anche l’insofferenza fosse più diffusa, di sicuro oggi pare indicibile. Quella di Porta a Porta non sembrerebbe più a nessuno una spettacolarizzazione eccessiva, ma una tecnica di intrattenimento al passo coi tempi. Il Garlasco show, il Cogne show, il Novi Ligure show, l’Erba show non sono affatto archiviati come si augurava Grasso nel 2007, ma sono ancora pane quotidiano. Come tutte le grandi saghe dello show-business, Matrix, Rambo, Rocky, non finiscono mai.

Gli aggiornamenti sulla strage di Erba o sul delitto di Avetrana sono ancora la notizia di apertura dei giornali e il tema più dibattuto del giorno sui social. Sulla tv generalista i programmi e i canali che si occupano di cronaca nera sono moltiplicati ulteriormente, persino sulla tv a pagamento coi documentari più raffinati. Si può accendere la tv in qualunque momento della giornata con la ragionevole certezza di trovare trasmissioni e documentari su prove inedite, verità nascoste, dubbi sulle testimonianze, innocentisti, documenti che riemergono.

Ma non c’è solo la tv, perché la differenza principale rispetto al passato è che la cronaca nera è diventata cool e perciò ha dilagato. Su Whatsapp ci si scambiano meme di Chi l’ha visto e di Un giorno in pretura e online ci si dichiara Leosiners con una naturalezza che, fino a qualche anno fa, sarebbe stata impossibile. In libreria non troviamo più solo le sinossi dozzinali dei faldoni di tribunale con la pozza di sangue in copertina, ma anche le raffinate analisi o le raffinate inchieste d’autore sui casi più noti (e comunque con la pozza di sangue in copertina). Al teatro ci sono le vibranti orazioni civili, mentre su Spotify o affini non c’è solo Indagini, ma cercando “Strage di Erba” o “Delitto di Garlasco” si trovano, senza iperbole, centinaia di podcast. (In qualche modo tutto è cominciato col successo di Veleno, ma mentre quello aveva avuto davvero la forza di riaprire un caso di cronaca dimenticato troppo in fretta, non si può affatto dire lo stesso degli epigoni o delle imitazioni).

Marco Imarisio ha scritto Tenebre italiane. Storia terribile ma vera dei delitti che hanno cambiato il Paese (Solferino), un libro che emerge con forza da questo mare magnum per tante ragioni, la più evidente delle quali è contenuta in questa affermazione: “bisogna esserci, per capire che il ghiaccio sul quale cammina chi scrive di fattacci è molto sottile”. Nell’introduzione spiega così la persistenza di certe storie nel dibattito pubblico: «Senz’altro in quel periodo vi furono degli eccessi, che in qualche modo hanno prodotto una sorta di format, abbattendo ogni steccato tra i fatti e il pubblico pagante. Tra vittime, carnefici e la loro platea. È stata l’ultima stagione dei grandi casi di nera, ma anche quella di un modo di raccontare talvolta sganciato quasi dalla realtà, e più vicino al reality. Forse la famosa frase di Dino Buzzati sulla cronaca nera “come straordinario specchio dell’Italia” era già superata all’epoca. Quello è stato il momento in cui si è compiuta una mutazione definitiva, creando un modello di informazione, tutto e subito, che poi si è rapidamente esteso ad altri settori della società italiana».

Potrebbe dunque essere che oggi l’insofferenza alla cronaca nera non sia più possibile semplicemente perché quel modo di trattarla è diventata ormai il modo di trattare ogni notizia: la cronaca nera fa parte di un flusso ed è indistinguibile e inseparabile da esso. Ognuno si sceglie le “sue” notizie dal flusso, ma non perde più tempo a commentare o irridere o criticare le scelte altrui.

Resta, però, il fatto che ovunque, oggi, si parla di protagonisti di delitti efferati come fossero personaggi di fantasia. Non è una teoria personale che il successo della cronaca nera sui media risponda a un paio di meccanismi su tutti: provare pietà per la vittima fa sentire il lettore o lo spettatore come parte di una comunità, una comunità che rispetta delle regole e che resta sgomenta, ma si ritrova ogni volta che c’è da punire chi non rispetta quelle regole. Ma, ancora di più, la cronaca ci fa solidarizzare con la vittima o solidarizzare con i carnefici, quando pensiamo che non lo siano e tutti si siano convinti erroneamente del contrario: perché se siamo capaci di provare pietà per delle persone che non conosciamo e siamo capaci di soffrire per loro e con loro allora vuol dire che siamo buoni. Che ci preoccupiamo per gli altri, che non siamo cinici o disillusi, che sentiamo che quelle sono persone reali e non personaggi di fantasia. Per questo lo spettatore non crede di essere preda di alcuno show: lui sa che sta soffrendo, così come sa che sta soffrendo proprio perché quelle sono persone reali e non di fantasia. Saranno plagiate le persone che si commuovono per un film – pensa – quelle sì che sono persone che si commuovono per sofferenze che non esistono, io soffro e mi preoccupo per persone in carne e ossa.

Probabilmente già vent’anni fa davanti a quella puntata di Porta a porta c’erano due tipi di spettatori: quello che assisteva senza complessi di colpa e quello che assisteva col guilty pleasure e, per sopire la sensazione, se la prendeva col sistema mediatico. Oggi semplicemente questo spettatore ha i “suoi” programmi, col “suo” linguaggio, i “suoi” conduttori e i “suoi” media e quella sensazione non ha più bisogno di sopirla. La coolness della cronaca nera ha fatto in modo che solo la tv generalista prendesse la responsabilità della cosiddetta “morbosità”. Come se escludendo il talk-show sulla cronaca nera e limitandosi al podcast o al documentario di Netflix o all’aula di tribunale, la morbosità non fosse più una questione dirimente.