Lo racconta Massimo Coppola, fondatore di Isbn e suo primo editore.
Tre ciotole è un film su tutti i pensieri, le parole e le azioni stupide indispensabili ad affrontare un momento di crisi. Mentre viene lasciata dal suo fidanzato Antonio (interpretato da Elio Germano), Marta (Alba Rohrwacher) non riesce a trattenere una risatina canzonatoria quando lui, arrabbiato, esasperato, la esorta a «uscire da questa cazzo di comfort zone». Ogni volta che sua sorella Elisa (Silvia D’Amico) la sottopone al supplizio di una serata assieme, Marta riesce a sopravvivere solo concentrandosi sulle giocherellando con le parole assurde che escono dalla bocca di lei: cos’è un superhost di Airbnb? Perché si deve dire self tape quando si può dire provino? Com’è possibile che sei qui a parlare dello sperma di tuo marito e non sai qual è la differenza tra low sperm e slow sperm? Quando un professore, un suo collega, evidentemente innamorato di lei, cerca di convincerla a venire con lui a una pizzata-sushiata-texmexata, Marta non ha neanche bisogno di dirgli di no: le basta chiedere perché, lui una risposta a questa domanda ovviamente non ce l’ha, e lei così può inforcare la sua bicicletta e tornarsene a casa. Marta è bravissima a trovare tutti i pensieri, le parole e le azioni stupide degli altri, che in mano sua diventano un kit d’emergenza per affrontare e superare qualsiasi crisi. In realtà, né affrontarla né superarla ma evitarla, cioè quello che fanno tutte le persone intelligenti con le cose stupide.
Il kit d’emergenza di Marta funziona sempre, fino al giorno in cui non funziona più. Antonio alla fine la lascia davvero. All’ennesimo cazziatone («Non è colpa mia se volevi fare l’attrice e sei finita ad affittare appartamenti del cazzo ai turisti di Trastevere del cazzo»), sua sorella si mette a piangere davanti al cameriere che le sta servendo la capricciosa. All’infinitesimo rifiuto, il collega innamorato smette di provarci. Nel suo primo atto, Tre ciotole è la storia di un accerchiamento: una persona da sempre bravissima a svicolare si ritrova improvvisamente accerchiata da una serie di snervanti eventi. Se Marta fosse un personaggio, a questo punto inizierebbe il suo viaggio dell’eroe, alla fine del quale riceverebbe la ricompensa di una migliore versione di se stessa. Ma Marta è un personaggio solo in parte, perché prima Michela Murgia nell’omonima raccolta di racconti di cui questo film è liberissimo adattamento, poi la regista Isabel Coixet l’hanno manipolata abbastanza da renderla indisponente come una persona vera. Quando le crisi si fanno troppe e troppo grandi e troppo impegnative, per evitarle Marta inizia a fingere di essere stupida anche lei. Passa le serate a scrivere recensioni negative e vendicative del ristorante del suo ex. Quando sua sorella le chiede se ha voglia di cenare assieme, le risponde «No» e intende davvero «No». Come confidente si sceglie il cartonato di un idol KPop trovato nella spazzatura. Mangia malissimo, crackers, ketchup e wurstel crudi, le si inacidisce lo stomaco e inizia a vomitare tre volte al giorno, in corrispondenza di ogni pasto. Quando l’appetito sparisce, sua sorella le prenota una visita medica. Marta la rintuzza accusandola di essere iperprotettiva e si prepara all’ennesimo fiasco, si immagina finirà come quando Elisa le aveva consigliato un corso di mindfulness come terapia contro lo stress.

L’accerchiamento ai danni di Marta lo completano due medici, una gastroenterologa e un oncologo. Le dicono che nel suo corpo ci sono metastasi, al fegato, al cervello, a un polmone, e che non c’è cura per un tumore già in stato così avanzato. «Si tratta di conviverci», le spiega l’oncologo: né affrontare né superare, tanto meno evitare. Questa crisi è definitiva, finale nel senso più tetro della parola. Marta questa informazione all’inizio non riesce nemmeno a registrarla, figuriamoci. Pensa, dice e fa una stupidaggine: «Ho sempre pensato che il fegato assomigliasse al casco di un ciclista», così commenta la notizia più importante che riceverà nella sua vita. I medici la guardano esattamente come lei ha guardato in passato il suo fidanzato, sua sorella, il suo spasimante. In quel momento, per la prima e anche per l’ultima volta, Marta riesce ad allacciare un filo che la unisce alle persone della sua esistenza. Per la prima volta e anche per l’ultima volta, capisce cosa voleva dirle Antonio quando sosteneva che vai a sapere, certe volte si pensano, dicono e fanno cose senza un motivo. La malattia in Tre ciotole è esattamente questo: una rete che si allarga verso l’esterno, dal malato al mondo, l’esatto contrario della questione privata raccontata da una certa retorica. È forse questa la maggiore eredità lasciata da Murgia: la malattia come oggetto sociale, questione, problema e soluzione, tutte e tre le cose in una.
«Tutto autobiografico e niente autobiografico», così Murgia aveva definito il suo ultimo libro. Partendo da qui, Coixet fa la scelta più coraggiosa di un film che in tutto il resto – regia, fotografia, montaggio, musiche, interpretazioni – si mantiene discreto al limite dell’austerità, del cordoglio, del lutto. La regista supera la volontà dell’autrice della storia, avvicinandola moltissimo alla protagonista della stessa, con la quale condivide sia la diagnosi di carcinoma renale al quarto stadio che una neonata passione per il Kpop. Nel film si svolge un’operazione quasi contraria a quella svolta da Murgia con il libro Tre ciotole, in cui si era spezzettata in dodici storie diverse proprio per evitare il “tutto autobiografico”. Coixet riduce tutto a uno, invece. Dal punto di vista drammaturgico “tradisce” Murgia, prende questo rischio calcolato consapevole che è l’unico modo per restarle fedele lì dove conta: dal punto di vista etico e sentimentale. Nel suo terzo atto, Tre ciotole (il film) è il compimento del messaggio che Murgia ha voluto lanciare non solo con Tre ciotole (il libro) ma anche con la sua malattia. Nel modo in cui Marta “accoglie” il tumore risuonano le parole che Murgia pronunciò in quella intervista che colpì tanti così tanto: «Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere». E ancora: «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono». Se si volesse ridurre questo film a un merito soltanto, sarebbe dunque quello di chiarire definitivamente un equivoco che va avanti da quanto il libro Tre ciotole è uscito e da quando Murgia rivelò la sua diagnosi: sì, in questa storia, in queste storie, si parla di malattia ma no, non di morte. Quasi per niente di morte. Semmai il contrario.

Un tempo animato da uno spirito bastiancontrario, dalla vittoria di Bob Dylan nel 2016 il premio è diventato quasi pop. E la lista dei possibili vincitori di quest'anno (scopriremo chi ha vinto domani) ne è la conferma.