Stili di vita

Tovagliette — Spaghetti al pomodoro

La prima puntata di una rubrica di ricette: la pasta più classica, fatta bene bene.

di Tommaso Melilli

 
Tovagliette è una rubrica di cucina raccontata: a partire da oggi, ogni domenica di agosto pubblicheremo una nuova ricetta.

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Fulvio Pierangelini è uno chef insolito. Fino agli anni Novanta, prima che cominciassimo tutti quanti ad agitarci intorno al cibo, era considerato il migliore al mondo. Poi sono arrivati i food-blog, le classifiche, i cooking show e Pierangelini ha cominciato a sentirsi stanco: il suo mondo andava da un’altra parte, e lui non aveva voglia di seguirlo. Nel 2009 chiude il ristorante, e si autoproclama “chef in esilio”. Quello che segue è mitologia. Nelle sue rare apparizioni pubbliche parla come un oracolo. Le sue frasi iniziano generalmente col vocativo «Giovani cuochi» e continuano così: «Abbiate il coraggio dell’imprecisione»; «fermatevi solo quando credete che in un piatto non ci sia più nulla da togliere»; «il mondo ha più bisogno di una perfetta schnitzel che di un’improbabile sogliola al cioccolato», e cose così. A lui dobbiamo una manciata di piatti di una semplicità folgorante, ma se penso a Pierangelini non mi vengono in mente le sue chiacchiere, i suoi anatemi o la sua leggendaria passatina di ceci coi gamberi. Mi vengono in mente gli spaghetti al pomodoro.

Già. Fulvio Pierangelini è riuscito nell’impresa impossibile: appropriarsi del più banale e più prevedibile piatto della cucina italiana. «È un piatto che — diceva — al nostro ristorante posso fare solo io», perché quando uno chef cucina gli spaghetti al pomodoro si confronta con secoli di cuochi, di nonne, di madri. Milioni e milioni di spaghetti al pomodoro, e tu devi fare il migliore di sempre. Si narra che, nel suo menu, gli spaghetti al pomodoro fossero accanto agli spaghetti all’aragosta: entrambi i piatti costavano 50 euro. «Cucinare è raccontare una storia, e per farlo bene bisogna conoscere i fatti». E qui i fatti sono i pomodori: rispettarne le forme naturali, non tagliarli con violenza ma toccarli, al limite romperli con le mani — Pierangelini dixit. Problema: il maestro non ha mai rivelato la sua ricetta. Come un guru orientale, dopo averci suggerito la via che porta alla verità, lascia che ciascuno di noi trovi il suo modo di percorrerla. Proprio lui, che ne ha fatto la sua firma, ci dice che, alla fine, gli spaghetti al pomodoro siamo noi. Quindi, se lo dice lui, proviamoci.

Prendiamo, per ciascuno di noi, 200g di pomodori datterino molto maturi: con un coltellino, facciamo un piccolo taglio in verticale e apriamo ogni piccolo pomodoro a metà, con le dita. Non è necessario togliere i semi, quelli che vorranno rimanere attaccati ci rimarranno, gli altri cadranno. Svolgiamo tutta l’operazione su uno scolapasta, recuperiamo l’acqua di vegetazione e teniamola da parte. Poi disponiamo un tappeto di pomodorini in una o più teglie, un po’ d’olio e una spolverata di sale. Cuociamo in forno per due ore, a 100°, dopodiché frulliamo i due terzi. Riscaldiamo leggermente una padella vuota e mettiamo, nell’ordine, gli spaghetti appena scolati, l’acqua di pomodoro che avevamo tenuto da parte, abbondante olio, la salsa frullata e basilico a pezzetti. Spegniamo il fuoco e mescoliamo energicamente. Serviamo in un piatto piano caldo, con due cucchiai di pomodorini non frullati, altro basilico, altro olio e poco pepe nero. Se necessario, aggiungiamo un mestolo di acqua di cottura, ma non dovrebbe. Prima di servire, o meglio ancora mentre posate il vostro nido di spaghetti sul piatto, fate un succinto discorso su quanto siano complicate le cose semplici. Con ogni probabilità, qualcuno vi chiederà con sconcerto se nella salsa c’è del miele: voi abbassate lo sguardo, come se vi vergognaste di tanta dolcezza, e dite che c’è solo pomodoro.

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