Se ne riparla anche questa estate, per Elodie e Selvaggia Lucarelli. Se ne parlava anche l'estate scorsa. E quella prima. E quella prima ancora.
A chi non piacerebbe essere una popstar o una rockstar? Hotel lussuosi, team di assistenti pronti a esaudire ogni richiesta, montagne di soldi, e la capacità di radunare migliaia di persone solo con le proprie canzoni. Eppure, la musica di oggi non è più solo jam session e dischi: il live è diventato un prodotto iper-strutturato, al centro di una macchina economica che coinvolge sponsor, brand, promoter, piattaforme e agenzie di booking.
La popstar come azienda ambulante
Totalmente diverso dai tempi della tournée americana dei Beatles nel 1965, culminata nel celebre concerto allo Shea Stadium di New York, davanti a 55mila fan in delirio. Fu uno degli eventi simbolo della “British Invasion”: i quattro di Liverpool si esibirono circondati da un’isteria collettiva così intensa che loro stessi non riuscivano nemmeno a sentirsi suonare, coperti dalle urla assordanti. Quella follia segnò un punto di svolta: l’anno successivo i Beatles decisero di smettere con i tour dal vivo, esausti dalla Beatlemania. Una scelta che oggi appare quasi impensabile, dal momento che una popstar non è più soltanto una persona che canta: è un’azienda ambulante. Ogni tappa di un tour muove milioni di euro, decine di mezzi, centinaia di lavoratori. Ogni rinuncia, ogni imprevisto, ogni cancellazione comporta penali altissime, perdite di incassi da biglietti, merchandising e sponsorizzazioni, ricadute su investitori, assicuratori e perfino sugli azionisti, nel caso di artisti legati a multinazionali o conglomerati mediatici.
Ecco perché oggi il tour, più che un rituale laico di comunione tra artista e pubblico, rischia di somigliare a una catena di montaggio itinerante. I musicisti che si ammalano, si infortunano o, semplicemente, crollano mentalmente, spesso sono costretti ad andare avanti comunque, o a pagare cifre astronomiche per fermarsi. Per non parlare dell’acceso dibattito sui “finti sold out” dei concerti, che negli ultimi tempi in Italia ha tenuto banco, e che è di per sé abbastanza rappresentativo della situazione attuale.
Esigenze da star
Lungi da me difendere star miliardarie: vivono su un altro pianeta. Alcuni dettagli lo dimostrano. Durante il Formation Tour circolava un rider secondo cui Beyoncé pretendeva un water personale, smontabile e chiuso in un flight-case dedicato, da installare in ogni venue: lo staff lo chiamava “toilet-seat tour”. Tina Knowles (madre di Beyoncé) ha smentito, ma la voce riappare in più contratti filtrati alla stampa. Madonna inserisce una clausola ferrea nei suoi contratti: il camerino dev’essere sempre a 23 °C, nemmeno mezzo grado in più. Un tecnico HVAC la segue con termometro digitale; se la temperatura sgarra, parte la telefonata ai promoter finché non rientra nei “Madonna-approved” 23 gradi. Mariah Carey vuole invece candele Diptyque alla tuberosa, divani bianchi di seta e, su richiesta, cuccioli “hypoallergenic” per lo stress pre-show. Kanye West, nel 2013, chiese una montagna artificiale alta 15 metri — neve finta, proiezioni 3D — con un costo superiore a quello medio di un musical di Broadway per una sola sera. I Rammstein pare smuovano per ogni concerto, tra i 60 e gli 80 articolati da 40 tonnellate, carichi di palco telescopico, torri di fiamme, piattaforme idrauliche e container di propano. La lista potrebbe proseguire a lungo, ma insomma, ci siamo capiti.
Il logorio della via on the road
Sempre più spesso, nel mondo della musica dal vivo, si vedono tour cancellati o ridotti per burnout, esaurimento o altri problemi di salute mentale. Fare tournée è sempre stato faticoso, ma un tempo raramente le star ammettevano di fermarsi per questo. Si parlava genericamente di “stress” o “esaurimento nervoso”, e si tirava avanti. A ben vedere, i Beatles furono un caso di burnout ante litteram, dal momento che oggi molti artisti – soprattutto tra i più giovani – parlano apertamente del peso psicologico del successo e fermano i tour per tutelarsi. Una tendenza che in alcuni casi si traduce in vittimismo bello e buono. Però è oggettivo: una volta entrati in certi meccanismi dello show business, la pressione è inevitabile.
Da Robbie Williams a Miley Cyrus
Nel 2006, nel pieno della sua ascesa, Robbie Williams fu costretto a cancellare un’intera tournée asiatica — con date previste a Shanghai, Bangkok, Singapore, Bombay e altre città — per “stress e sfinimento”. Il logorio della vita on the road, sommato alle sue fragilità personali, lo portò poco dopo al ricovero in una clinica per abuso di farmaci. A ottobre dello stesso anno uscì Rudebox, un disco che lo vedeva cimentarsi col rap e con sonorità funk e sperimentali, trainato da un singolo omonimo, suonato da musicisti come Bill Laswell, Sly & Robbie e William Collins dei Parliament/Funkadelic. La critica, però, fu spietata: il brano venne definito da alcuni “un crimine contro la musica”, e il Sun lo bollò come “la peggior canzone di sempre”. Cocaina, alcol e altre sostanze fecero il resto. Nemmeno un periodo di riabilitazione in Arizona bastò a rimetterlo in carreggiata: decise di sparire dalle scene, dedicandosi a tutt’altro — come la caccia agli UFO insieme al giornalista Jon Ronson. Più tardi tornò in pista. Nel 2017 partì l’Heavy Entertainment Show Tour, una tournée mondiale imponente, ma ancora una volta la storia si ripeté: sette date cancellate, tra cui due in Russia, per un misterioso malore. Segno che, ancora una volta, corpo e mente gli imponevano lo stop.
Similmente a Robbie Williams, anche Sam Fender, Shawn Mendes, Demi Lovato – che ha addirittura dichiarato di non voler più fare tour in futuro –, Stromae e recentemente anche Miley Cyrus hanno sperimentato sulla propria pelle quanto possa essere difficile la vita in tour. L’elenco potrebbe continuare, e in effetti si allunga ogni anno: sempre più artisti, anche tra i più noti, si ritrovano costretti a cancellare date o interi tour per ragioni legate alla salute mentale e al burnout. Basta guardare ai video che circolano in rete di Justin Bieber, visibilmente provato e assente, che tra il 2022 e il 2023 ha prima sospeso e poi definitivamente annullato il suo Justice World Tour, citando un grave esaurimento fisico e mentale, aggravato da una paralisi facciale dovuta alla sindrome di Ramsay Hunt. Similmente la popstar Adele, in lacrime nel gennaio 2022, ha cancellato la sua residency a Las Vegas, chiedendo scusa ai fan e spiegando che dietro alla decisione c’erano non solo problemi legati al Covid, ma anche ansie personali e un perfezionismo che l’aveva consumata.
«Devo prendermi cura di me stesso»
Molti, oggi, vedono nella pandemia di Covid-19 una vera e propria cesura, un punto di non ritorno per l’industria musicale. Il lungo stop forzato tra il 2020 e il 2021 ha portato tanti artisti a riconsiderare priorità e limiti. Alcuni si sono resi conto di non riuscire più a reggere i ritmi pre-pandemia, mentre altri hanno sviluppato forme di ansia sociale durante il lockdown, rendendo insostenibile la sola idea di tornare in tour. Mike Patton, cantante dei Faith No More, ha raccontato senza filtri di essere diventato “antisociale e spaventato dalle persone”, al punto da dover cancellare tutti i concerti della band. Anche Jimi Goodwin, frontman dei Doves, dopo aver cancellato il tour del gruppo nel 2021, scrisse un lungo messaggio sui social: «Non ci si dovrebbe mai scusare per avere problemi di salute mentale. Mi dispiace per chi aveva già comprato i biglietti, ma devo prendermi cura di me stesso».
Tra fragilità individuali ed effetto sistemico, studi recenti hanno cercato di quantificare il fenomeno: già nel 2018 una ricerca della «International Music Industry Research Association»rivelò che il 50% dei musicisti intervistati lottava o aveva lottato con la depressione, e un’indagine del 2019 («Record Union») trovò che il 73% degli artisti indipendenti riportava elevati livelli di stress, ansia o disturbi mentali. Pare quindi che l’over performance faccia dimenticare di essere fatti di carne e ossa; ma prima o poi il cedimento arriva.