Dopo il Nosferatu di Robert Eggers, un'altra riscrittura di Dracula in chiave romantica e tormentata. Riscrittura che evidentemente funziona, visto che il film è in testa al botteghino italiano.
Se andate a vedere The Smashing Machine per verificare la trasformazione di The Rock in attore serio, via libera. La sua interpretazione di Mark Kerr, pioniere dell’Mma (Mixed martial arts) a fine anni ‘90, quando la disciplina era ancora sconosciuta al mainstream e non un’industria da miliardi di dollari come oggi, è sincera e sottile, probabilmente troppo se ci si aspetta una performance struggente da Oscar.
Se invece vi interessa il film perché è il primo lavoro in solitaria di Benny Safdie e siete fan di Good Time e Uncut Gems, i due cult istantanei che ha girato col fratello, potreste restare delusi. The Smashing Machine ha la colonna sonora atmosferica e onnipresente (l’alt-jazz di Nala Sinephro) e la tattile fotografia analogica (di Maceo Bishop) che ci si potrebbe aspettare dai due, ma non una briciola della loro tensione ansiogena. Anzi, il film frustra consapevolmente questa aspettativa, e va oltre: non solo sovverte la tipica narrazione a bomba a orologeria Safdie, ma anche i tropi del film di lotta. Dimenticatevi la brutalità di Toro Scatenato e l’epica di Rocky, il dramma di The Wrestler e Foxcatcher e i set-piece di Creed e The Iron Claw. A dispetto del titolo, The Smashing Machine si muove con leggerezza e umanità, mantenendo le lotte corporali realistiche e concise e quelle umane credibili e (per lo più) contenute. Se il LaMotta di De Niro picchiava la moglie, il Kerr di The Rock le fa notare le dosi sbagliate del suo protein shake. Ironico che, in un film sulla lotta corpo a corpo domini la passivo-aggressività.
Persone normali
Ma se siete tra i (troppo) pochi che hanno visto e apprezzato The Curse, serie del 2023 di Nathan Fielder e Benny Safdie, The Smashing Machine è per voi. The Curse è un esercizio in frustrazione dello spettatore, un meta-documentario che testa pazienza e sopportazione evitando accuratamente qualsiasi svolta narrativa significativa, ostinandosi invece nell’osservazione passiva dei protagonisti in tutte le loro contraddizioni. The Smashing Machine è decisamente più godibile ma ugualmente aderente all’estetica documentaria (per esempio mostrando i combattimenti solo da fuori dal ring, come li vedrebbe uno spettatore) e altrettanto disinteressato a soddisfare la nostra sete di dramma e violenza, che inevitabilmente portiamo al cinema con noi quando vediamo un film su un ex lottatore alle prese con la sconfitta, le crisi domestiche e le droghe. Tutti questi elementi sono presenti, ma non come ce li aspetteremmo: dopo una crisi, Kerr supera la dipendenza senza ricadute; il rapporto con la moglie è altalenante, si amano ma hanno tratti inconciliabili, come ogni coppia disfunzionale e tante coppie “normali”; e la sconfitta, inizialmente incomprensibile per il protagonista, inevitabilmente lo mette alla prova, e alla fine impara ad accettarla come parte del suo percorso di vita.
Se durante il film può sembrare che il protagonista sia poco delineato, a posteriori è evidente che sia solo una persona semplice: cortese e solare, con obiettivi e problemi, anche gravi, ma meritevole di empatia. Lo stesso vale per gli altri personaggi: il migliore amico e collega lottatore e l’allenatore, entrambi interpretati egregiamente da veri lottatori (Ryan Bader e Bas Rutten, che interpreta se stesso), la problematica fidanzata Dawn (l’eccellente Emily Blunt) e persino il temibile avversario russo, che inizialmente sembra incarnare l’antagonista del film, dopo aver ferito Kerr con una mossa scorretta, solo per rivelarsi immediatamente amichevole e dispiaciuto dell’accaduto. Più che i più forti lottatori del mondo, macchine da guerra e da riflettore, quelli sullo schermo sembrano essere persone normali che hanno scelto un percorso atipico per procurarsi da vivere.
L’esperimento
E proprio qui sta la ragione d’essere del film, resa inequivocabile da un epilogo inaspettato e adorabile che vede il vero Mark Kerr infrangere la quarta parete e rivolgersi con un gran sorriso direttamente a noi, spettatori. Gli atleti che oggi sono star internazionali, spesso icone tossiche di mascolinità note anche a chi non segue lo sport, appena venti anni fa sarebbero state perlopiù sconosciute; sarebbero state, appunto, persone normali. Raccontando quindi la normale storia dei loro precursori, non solo per analogia si evidenzia la natura terrena degli “idoli” contemporanei, ma si restituisce una frazione della loro fama a chi prima di loro non ne ha visto che una briciola. Mark Kerr, seduto accanto a Dwayne Johnson all’anteprima del film al Festival del Cinema di Venezia, si è visibilmente commosso anche prima della standing ovation di 15 minuti a fine proiezione. Aveva già versato qualche lacrima alla conferenza stampa, ascoltando il discorso di Johnson (altrettanto commosso): “Mark è stato il più grande combattente del mondo a un certo punto, ma questo film non parla nemmeno davvero di combattimento — è una storia d’amore. È una storia d’amore tra Mark e Dawn, ed è una storia d’amore tra Mark e ciò che amava fare. […] Come sapete, Mark ha avuto due overdose, ed è fortunato a essere vivo — ed è per questo che questa storia è così speciale.” In realtà non è scontato saperlo: il film mostra solo il recupero di Kerr da un’overdose, l’altra nemmeno la menziona. Ma poco conta, anzi conta proprio che il focus del film non sia sui suoi punti più bassi.
Johnson ricorda la premiere: «Ero così felice per Mark, che quel pubblico gli stesse dicendo: ‘Hai vissuto una vita. E noi tutti ci riconosciamo nella tua vita». E se il pubblico riesce a riconoscersi nel protagonista, per The Rock dev’essere stata un’immedesimazione viscerale. Ex icona del wrestling diventato star di franchise hollywoodiani, il suo percorso è inverso a quello di Kerr: nonostante il background affine, il punto di incontro tra i due è l’apice della fama di uno e il progetto più di nicchia per l’altro. Come Kerr impara nel film ad accettare la sconfitta, forse anche Johnson sta accettando che successo e fama non sono tutto, e che il suo percorso potrebbe essere altrove. Di questo sembra già convinto: «Da The Smashing Machine in avanti farò film per me», ha detto a Variety.
Il colpo di genio
Di certo c’è che questo cortocircuito tra realtà e artificio sia voluto. Benny Safdie sa che sappiamo di stare vedendo il vero Dwayne The Rock Johnson interpretare una versione di Mark Kerr che reinterpreta il vero Mark Kerr, e su tale risonanza poggia tutto il progetto. Il film è stato criticato per essere troppo simile al documentario del 2002 sullo stesso tema e dallo stesso titolo, ma è proprio il suo essere film — e quindi trasposizione della realtà tramite attori — a conferirgli senso. The Smashing Machine impiega non solo il talento dell’attore protagonista ma il suo posto nell’immaginario collettivo all’esterno del film, inserendosi così in una tradizione che va da Birdman, con Michael Keaton che ironizza sul suo ridicolo Batman, a Una battaglia dopo l’altra, con Di Caprio che scappa dal suo passato di attivista nel film e di sovrumana star senza tempo nel mondo reale (rimando a proposito all’illuminante articolo di David Ehrlich); da Punch Drunk Love, la sfida di Paul Thomas Anderson di fare un film non demenziale con Adam Sandler, a Uncut Gems, la stessa identica sfida ma intrapresa 17 anni dopo proprio dai fratelli Safdie; fino ad arrivare a The Curse, in cui Benny Safdie stesso interpreta un regista che non riesce a girare la sua serie. Si tratta di un meta-cinema sottile, sottinteso, che piega la quarta parete senza romperla, permettendo quindi che parallelamente all’esercizio concettuale possa coesistere un film “normale”. Chi l’avrebbe detto che il motivo apparentemente più superficiale per vedere The Smashing Machine, la trovata di marketing di dare a The Rock un ruolo drammatico, fosse in realtà ciò che eleva il film da buon prodotto a colpo di genio.
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