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Generazione Berlusconi

Per i Millennial italiani, Berlusconi non è stato solo Mediaset e Forza Italia, l'imprenditore e il politico: la sua vita è stata il grande romanzo italiano e lui l'incarnazione della cultura di massa del nostro Paese.

di Laura Fontana

Quando Silvio Berlusconi discese in campo noi Millennial andavamo alle elementari o all’asilo. Gli adulti in casa improvvisamente erano molto agitati o estremamente esaltati e la domenica, quando più famiglie si riunivano allo stesso desco, era meglio trangugiare velocemente le fettuccine al ragù e andare a giocare fuori a pallone coi cugini. L’energia intorno alla lunga tavolata imbandita era elettrica, generata dallo scontro del polo familiare berlusconiano con quello antiberlusconiano. Benché causa di diatribe domestiche, io associavo il Cavaliere a una cosa sola, cioè alla tv, cioè a Bim Bum Bam, che mandava in onda grandi fonti di gioia infantile come Lady Oscar, i Puffi e l’Incantevole Creamy. Essendo però una bambina cresciuta in una famiglia di centro-sinistra, nascondevo dentro di me questa positiva associazione tra Berlusconi e l’intrattenimento pomeridiano, e mi adeguavo al contesto: l’atteggiamento giusto da tenere era quello dell’intellettuale progressista preoccupato per le sorti del Paese; scuotevo la testa, assumevo le stesse pose desolate di Achille Occhetto con l’Unità sotto il braccio, quando alle elementari qualcuno decideva di smettere di tifare AS Roma per iniziare a tifare Milan, in virtù del fatto che si dichiarava convinto dal nuovo che avanza.

Metà Italia aveva subito creduto a Silvio Berlusconi: il Paese azienda, meno tasse per tutti. Per l’altra metà, era diventato il nemico assoluto, la rappresentazione perfetta di tutto quello che non andava nella società italiana, l’incarnazione del politicamente sbagliato, perno fisso e stella polare di quello che non si doveva essere. Lo vidi da vicino il decennio successivo, a un congresso dei Democratici di Sinistra dove mi aggiravo in quanto stagista di una “redazione web”, munita di fotocamera in mano e messa a fare foto brutte con cui aggiornare un sito. Di Berlusconi riuscii a fotografare in pratica solo la parte superiore del cranio, comunque riconoscibilissimo (per la forma, il colore, i capelli così noti). Entrò e fu subito circondato da una moltitudine di persone, che le guardie del corpo non riuscivano assolutamente a contenere. Siccome mi trovavo su un piano rialzato, la scena dall’alto si presentava come un gorgo umano con Berlusconi che, essendo effettivamente basso, diventava il centro dell’imbuto dove sembrava confluire la massa umana che lo circondava. La rappresentazione reale del magnetismo del leader. Al congresso dei Ds, scene del genere non si erano vista neanche con l’ingresso del Professore, Romano Prodi, l’unico suo vero rivale.

Non sappiamo com’è veramente successo ma alla fine, a forza di odiarlo e di considerarlo il nemico e il cattivo, ci è diventato in un certo senso simpatico. Quando abbiamo iniziato la revisione storica della nostra infanzia, ci siamo accorti che siamo cresciuti con le sue frasi cult e certi momenti chiave che, volenti o nolenti, ricordiamo perfettamente a memoria, come le canzoni di chiesa e di Eros Ramazzotti. «Culona inchiavabile», «è anche abbronzato», «nipote di Mubarak». «Si contenga!», gridato a Gad Lerner, il lettone di Putin, e poi quando ha pulito la sedia a Travaglio con un fazzoletto bianco, e quando gli hanno tirato in fronte la statuetta del Duomo di Milano. Con un amico ce li scriviamo in chat, facciamo a gara a chi se ne ricorda di più: «scendo in campo», «un milione di posti di lavoro», «mi consenta», «l’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti», «cribbio». Il «ciarpame senza pudore», le cene eleganti, «ancora potrebbe generare un figlio», «il principale esponente dello schieramento a noi avverso», l’editto bulgaro, le dieci domande di Repubblica, «la suggerirò per il ruolo di kapò», «la giustizia ad orologeria», la tessera 1816, i clœb, «meno male che Silvio c’è», leggi ad personam, il bunga bunga, per arrivare a tormentoni più recenti come «Tik Tok Tak». La rilevanza culturale si capisce dal numero di citazioni e Silvio Berlusconi lo citiamo continuamente: lui si è fatto per trent’anni incarnazione della cultura di massa italiana. Si è poi circondato di amici, famigli, discepoli e fratelli. Il cerchio magico di nomi che risuonano nell’immaginario collettivo e che sbloccano ricordi: Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Gianni Letta, Niccolò Ghedini, Sandro Bondi con le sue poesie, e poi Giampaolo Tarantini, Nicole Minetti, la D’Addario, le olgettine, Emilio Fede, Mariano Apicella, Noemi Letizia, fino alle mogli e compagne Carla Dall’Oglio, Veronica Lario, Francesca Pascale, Marta Fascina. E il cane Dudù. Questo è grande epos, questo è il grande romanzo italiano.

Arriva infine anche per lui la nemesi e porta il nome di Ruby Rubacuori; il castigo divino perfetto per il Cavaliere Caimano, che ha “l’unico boss virile” come anagramma del suo nome. Non va bene nessun parallelismo con altre faccende americane, tipo #MeToo o Weinsten. Non vanno affatto bene i paragoni con Trump. Quella di Silvio Berlusconi è un’altra storia, fatta di ineguagliabile carisma, larghi sorrisi, lifting, lampade, scarpe rinforzate. Lacrime davanti alle bare del terremoto dell’Aquila, dentiere regalate, antenne televisive, la famiglia allargatissima che continua a riunirsi a ogni Natale, con lui al centro, come fosse il millenovecentonovaquattro per sempre. Disse di lui Antonio Di Pietro: Silvio Berlusconi è la Wanna Marchi della politica italiana. Cosa che poi Berlusconi disse anche di Umberto Bossi: non si può negare che ha sempre avuto un certo senso dell’umorismo, oltre che un vasto repertorio di barzellette. Wanna Marchi ha detto che incontrò Berlusconi durante una cena elegante a casa del marchese Attilio Capra le Carrè, e lui le offrì di presentare Ok, il prezzo è giusto, ma lei rifiutò. Da Capra le Carrè, tra l’altro Silvio Berlusconi comprò la famosa villa in Costa Smeralda, La Certosa, quella col vulcano in giardino. I possedimenti immobiliari di Berlusconi sono un altro capitolo a parte in questo affascinante viaggio dell’eroe. La Villa di Arcore apparteneva al marchese Casati Stampa, che si suicidò dopo aver sparato alla moglie e all’amante della moglie. Si dice che Berlusconi la comprò grazie a Previti, il tutore della figlia del marchese rimasta orfana. È lì che nel grande mausoleo di marmo rosa riposerà in pace questo Novecento, con sigla finale cantata da Cristina D’Avena.