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La Silicon Valley era un’utopia, oggi è un incubo

Da paradiso di garage e progresso, è diventata il luogo di imprenditori malvagi e forse non così lungimiranti. Un viaggio tra libertarismo, criptovalute, influenze politiche e scelte sbagliatissime.

di Pietro Minto

C’era una volta un’azienda tecnologica di giovani che lavoravano in un ufficio immerso nel verde con i tavoli da ping pong e una mensa gratuita ormai leggendaria. Questa azienda aveva un motto: “Don’t Be Evil”, non essere cattivo. E il mondo sorrideva leggendolo, si domandava cosa potesse mai fare di cattivo un sito internet tanto colorato. Passarono gli anni. L’azienda divenne sempre più ricca e potente, i suoi uffici ancora più labirintici e giocosi. Un giorno però il celebre motto venne sostituito con una frase più vaga e cauta: non più “Non essere cattivo” ma “Do The Right Thing”, fai la cosa giusta. Un nuovo motto relativista, ideale per un’azienda che si preparava a stringere accordi con il governo e l’esercito del suo Paese.

Potrebbe sembrare un arco narrativo un po’ forzato eppure è quello che è successo a Google, la più iconica delle aziende internettiane – e anche una delle più antiche: la sua fondazione risale al 1998 d.C. Questa parabola è forse la descrizione migliore della Silicon Valley, nome con cui si intende un’area geografica, un tempo detta Santa Clara Valley, che si estende a sud di San Francisco, un terroir di aziende di piccole dimensioni operanti in un settore nuovo di zecca a partire dagli anni Cinquanta. E quindi silicio, minerale che dà il nome alla DOCG stessa, ma anche semiconduttori, per non dimenticarsi dei leggendari garage sgarrupati dove ingegneri nerd-ma-anche-hippie si divertivano con l’informatica e la cibernetica, dando inizio a una delle più grandi fasi di arricchimento nella storia dell’umanità.

Alla base di questa Valle, un denso reticolo di industrie del settore hardware e soprattutto software, e un’eccellente sinergia con le istituzioni universitarie della zona – tra tutte Stanford – ma anche e soprattutto un rapporto privilegiato con la Difesa statunitense, che dai tempi più plumbei della Guerra fredda imparò a investire qui nella ricerca tecnologica al servizio dello spionaggio e della guerra. Il tutto all’ombra di San Francisco, capitale gay before it was cool, ma anche città della controcultura, grazie alla vicina University of Berkeley, cugina fricchettona di Stanford.

Quando oggi ci lamentiamo dell’inquietante mutazione subita da quelle aziende che negli anni Zero avevamo imparato ad amare ciecamente, basta ricordare che gran parte di quelle aziende viene da qui, da una psicogeografia che ha dello schizofrenico. Eppure il contrasto funziona, o ha funzionato, almeno finora. Di tutti i luoghi d’America, a partire dagli anni Cinquanta, gli investimenti informatici cominciarono a piovere proprio qui, e proprio Stanford fu il principale nodo di Arpanet, antenato della rete internet. Se il World Wide Web fu sviluppato da uno scienziato del Cern di Ginevra, in un clima di collaborazione scientifica internazionale, Arpanet fu invece un progetto militare. Calcolatori grandi come appartamenti da collegare magicamente usando il ricco budget garantito dalla Guerra fredda. 

Questa vocazione duplice e paradossale è ben evidente, oggi, quando vediamo l’ennesimo Ceo e founder miliardario sbriciolarsi il cervello su un social network al quale confida le sue opinioni politiche sempre più destrorse. Ma le avvisaglie di questa deriva erano presenti da tempo come fantasmi inevitabili: nonostante le origini radical e anti-sistema, infatti, da tempo gli aspiranti startuppari soffrono dell’influenza di Ayn Rand, scrittrice nota per le sue opinioni anti-socialiste e la celebrazione di una classe di personaggi superiori – ricchi, ok, ma perché se lo sono meritato, mica come gli altri.

Alcune opere di Rand possono essere definite di fantascienza: in particolare Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante in italiano), epopea di un’imprenditrice e del suo incontro con il misterioso John Galt, magnate che propone una sorta di sciopero intellettuale: la protesta dei migliori contro le autorità centrali e chi tarpa le ali dei membri più produttivi della società. Galt si nasconde in una città futuristica, Galt’s Gulch, da cui guida l’insurrezione – e inevitabilmente finisce nel mirino del governo di Washington. Nella mitologia greca, Atlante fu costretto da Zeus a reggere sulle spalle l’intera volte celeste: nel titolo originale di Rand, Atlante sbuffa e alza le spalle, liberandosi da quel peso. Un ottimo titolo per un’opera straordinariamente boriosa e verbosa.

Rand è nel pantheon del movimento libertario pro-capitalista che serpeggia negli Stati Uniti e che alterna posizioni progressiste su temi civili ad altre destrorse sull’economia (in poche parole: meno Stato possibile, grazie). Nella Valley è nata una sua variante, il tecnolibertarismo, che riecheggia nella idea di World Wide Web – aperto, libero, senza governi – ma anche in un’invenzione più recente, nata nell’ambiente cypherpunk. 

Mescolando crittografia, cybersicurezza a uno spiccato scetticismo nei confronti dello Stato, i cypherpunk capirono già dagli anni Novanta che era possibile usare la rete per liberare anche l’ultimo fetta di mondo rimasta sotto il gioco delle autorità statali: la valuta corrente. E quindi l’idea di digital cash, soldi contanti non regolati da banche centrali, l’ideale per condotte poco legali, si direbbe, anche se i cypherpunk avevano un disegno politico. Niente Stato, niente FED. Solo libertà. Fu da questo calderone tecnoculturale che, nel 2008, l’anonimo e misterioso Satoshi Nakamoto trasse il coniglio Bitcoin.

Ma abbiamo fatto un passo in avanti di troppo, arriveremo anche al crypto. Prima di Bitcoin, però, dobbiamo indicare il vero nume tutelare del lato oscuro della Valley, il suo Voldemort. Trovarlo è facile. Peter Thiel oggi è noto per essere sostenitore di Donald Trump e di una serie di altri personaggi orbitanti la destra radicale statunitense – detta anche alt-right – oltre che finanziatore di decine di startup d’ogni tipo. 

Ma Thiel è soprattutto il leader spirituale della cosiddetta “PayPal Mafia”, un manipolo di vecchie lenze che si sono conosciute lavorando a PayPal, per poi venderla a eBay diventando ricchissimi. Oltre a Thiel, comprende Elon Musk, David Sacks e altri personaggi che da quell’acquisizione, avvenuta nel 2002, si sono poi dispersi, fondando o lavorando per aziende come YouTube, Tesla, LinkedIn, SpaceX, Square e Reddit. Nel 2007 la rivista Fortune li fotografò tutti in posa da gangster: già all’epoca gli hippie di Haight-Ashbury erano un ricordo lontano.

Gli uffici colorati e i dipendenti felicemente strapagati erano quindi un’esca, un tentativo di mascherare un’anima più gretta e da affarista. Ripensandoci, è assurdo esserci cascati (in primis chi scrive), ma tale è il potere delle illusioni. Resta da capire quando questo velo di Maya è crollato, individuare il momento in cui buona parte delle persone si sono rese conto della “vera” natura di questo pezzo di mondo. Per comodità potremmo indicare il 2020 e la pandemia da Covid-19, che arricchì ulteriormente Big Tech e favorì l’inizio di un grande ciclo speculativo che aumentò la distanza tra mondo reale e Silicon Valley, rivelandone il lato più buio: il Web3. 

Ve lo ricordate il Web3? Ah, la nuova frontiera della rete, nata dalla fusione tra il metaverso e il grande mondo del crypto, fatto di criptovalute ma anche di Nft e di Dao, un grande videogioco interattivo in grado di sostituire il mondo che ci circonda. Facebook cambiò nome in Meta per agevolare questa transizione, mentre i principali fondi di investimento del settore (tra tutti a16z) investirono miliardi in qualsiasi startup che avessero aggiunto “web” e “crypto” alle loro slide di presentazione. Il metaverso rimase un luogo freddo, pixelato e vuoto, le principali istituzioni del settore crypto scricchiolarono e Sam Bankman-Fried – “quello normale” del settore e grande investitore democratico – fu arrestato per frode. (Si scoprì che donava soldi anche a destra, ma in silenzio).

Fu un brutto colpo. Per la prima volta, Big Tech si fece sorprendere mentre puntava quasi all’unanimità su un prodotto brutto, scemo e indesiderato, mentre la pandemia favoriva l’ascesa di servizi come Clubhouse, che investitori e Ceo usavano per convincersi a vicenda di stare facendo la cosa giusta. Come tante piccole Ayn Rand, abbiamo sempre pensato agli effetti della filter bubble sul popolo, la plebe, presumendo che almeno quelli che costruivano i social network sapessero di doverne stare alla larga. E invece l’effetto camera dell’eco è forte, democratico, intersezionale, perché no. La livella.

Nel frattempo il mondo cambiava e, per la prima volta da tanto tempo, la Valley ne rimase sorpresa. Esclusa. TikTok si diffuse e costrinse praticamente tutti a convertirsi al suo credo fatto di video verticali e musichette, non senza impacci. Fortunatamente per i nostri titani, l’arresto di Bankman-Fried avvenne in un momento in cui il settore stava già cominciando a farsi ossessionare da un altro gingillo, questa volta più promettente e solido del Web3: arriviamo così alle intelligenze artificiali generative, le ChatGPT di questo mondo, un tipo di bolla speculativa diversa da quella Web3: sotto alle AI qualcosa c’è; sotto agli Nft c’era il vuoto.

Arriviamo a oggi. Le AI stanno rovesciando come un calzino la Google che abbiamo visto all’inizio di questa storia, che ora è costretta a inseguire la concorrenza con il chatbot Google Gemini mentre con l’altra mano dovrebbe offrire risultati chiari e non inquinati da AI ai suoi utenti. Ci riuscirà? Non è detto. Nel frattempo, per la prima volta nella storia, l’antitrust statunitense la sta tenendo d’occhio e c’è chi pensa che una spaccatura del gigante Alphabet (nome del gruppo a cui fanno capo Google, YouTube, Gmail, Waymo…) sia imminente. À la Microsoft nel 2001, insomma. Internet non sarebbe più stessa. Il web neppure, e nemmeno la Silicon Valley – anche se, come abbiamo visto, la Valley non è mai stata quella che sembrava.

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