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Silicon Valley e la Silicon Valley

Hungry and foolish, d'accordo, ma senza esagerare. Come la retorica di Steve Jobs sta tramontando, anche grazie a una nuova serie Hbo che racconta la vera realtà dei "techie", e la Valley non è più soltanto il regno di geni che vogliono cambiare il mondo.

08 Maggio 2014

È cominciato tutto con uno spot nel bel mezzo del Super Bowl di trent’anni fa: si vedeva una lanciatrice di giavellotto correre libera tra umanoidi grigi e lobotomizzati, mentre un faccione orwelliano detta ordini da uno schermo; l’atleta, inseguita da gendarmi di regime, lancia il suo giavellotto proprio in faccia al Capo, il Cattivo, rompendone l’incantesimo maligno. Si sente una voce, uno slogan, l’inizio di un nuovo ordine mondiale: «On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you’ll see why 1984 won’t be like “1984”».

Lo spot Apple girato da Ridley Scott è un documento storico importantissimo, anche perché segna simbolicamente la nascita della retorica della Silicon Valley, un posticino californiano in cui nessuno sembra voler fare business per i soldi, l’obiettivo vero è cambiare il mondo, migliorarlo, sfasciare tanti altri schermi di regime con sempre nuovi giavellotti. Una retorica sopravvissuta alla bolla dot com d’inizio millennio anche grazie al suo grande leader, Steve Jobs, che nel frattempo era tornato ad Apple, pronto a portare l’azienda verso nuovi territori. Oggi, mentre ogni città e nazione del mondo vanta una propria presunta Silicon Qualcosa, il sogno startupparo è diventato mainstream: tutti vogliono viverlo per un secondo. È forse anche per questo motivo che sta tramontando.

Sorpresa! Pare che il business della Valley si basi perlopiù sui soldi, tanti soldi, e su un’umanità competitiva, un meccanismo crudele pronto a stritolare ventenni socially awkward con i loro sogni

Basta osservare i segnali: libri, giornali e televisione – megafono del sogno di silicio –  hanno cominciato a raccontare la Silicon Valley in modo diverso, finalmente spoglio di quella epica per cui ogni start up è fatta di sogni e ogni ragazzino in garage un eroe hungry e foolish contro il Cattivo di turno. Ciò non rappresenta ovviamente la fine di questa retorica, quanto l’inizio di una nuova fase più matura, meno credulona – e il crollo che in questi giorni ha interessato i titoli tecnologici in borsa (Twitter e Aol in primis) sembra dimostrare un mutato sentimento da parte di Wall Street. Crollo che accompagna le primissime puntate di Silicon Valley, nuovo show creato da Mike Judge per Hbo sulla vita dei giovanissimi techie nella baia di San Francisco, sui loro sogni, le loro ambizioni e sul sistema economico-culturale a cui sono sottomessi: ci sono gli incubatori, i venture capitalist (quelli di serie A, poi gli altri) con le loro folli idee sul futuro del mondo e dell’umanità; ci sono interessi, stronzi senza scrupoli e ventenni indifesi che in poche ore devono decidere se vendere la loro idea per 5 milioni oppure tenersela sperando in un profitto futuro maggiore. C’è l’altra parte della storia, quella vera e crepuscolare.

Ogni liturgia ha del magico: quella inventata da Jobs & Co. poneva l’imprenditore su un piano più alto di quello economico (d’altronde Egli percepiva un solo dollaro all’anno, nevvero?) e da quell’iperuranio usava la tecnologia per migliorare la nostra vita. E invece sorpresa!, pare che il business della Valley si basi perlopiù sui soldi, tanti soldi, e su un’umanità competitiva, un meccanismo crudele pronto a stritolare ventenni socially awkward con i loro sogni; ci sono cause legali, furti di idee, strani culti aziendali, orge e baccanali da fine impero – tutte cose essenziali a un buon racconto ma molto poco “magiche”. Se The Social Network ha raccontato l’ascesa di uno sfigatino di Harvard e la sua rivincita nei confronti del mondo, Silicon Valley allarga lo spettro, prendendo un gruppetto di programmatori molto diversi tra loro, veterani del settore già delusi dalla Macchina (Erlich Bachman, una sorta di Drugo techie), novelli Zuckerberg (Richard Hendriks) che potrebbero fare la storia o scomparire nel nulla in caso di pitch poco convincente, e gli investitori senza scrupoli, gli unici oliatori del meccanismo imprenditoriale.

Non è un remake de I Pirati della Silicon Valley, non tratta dei titani del settore ma, insieme a Betas (show di Amazon), preferisce il sottobosco, la maggioranza silenziosa fatta anche dell’elemento bandito nella Valley: la mediocrità. A serie appena avviata non possiamo prevedere cosa ne sarà di Pied Piper, l’app ideata dal protagonista Richard, che potrebbe fare il botto o venire spazzata via; siamo in un limbo tra la cronaca dei primi passi di un gigante e Il Soccombente di Bernhard, inevitabilmente schiacciato dal talento altrui. Un girone infernale particolare, quello dedicato a chi poteva farcela, eppure… però la prossima volta potrebbe andare meglio… forse. Un paese dei balocchi in cui circolano mostriciattoli che non ti aspetti, come quello che consiglia a Richard, il protagonista, di cambiare approccio e fare lo stronzo, giacché «if you’re not an asshole, this company dies».

«La nostra generazione non ha avuto guerre», spiega un giovane programmatore a Gideon Lewis-Kraus, «quindi vengono qui e la loro esperienza di guerra è avviare una società». Kraus ha appena pubblicato su ebook No Exit: Struggling to Survive a Modern Gold Rush, un altro bel viaggio nel lato oscuro dell’ambiente, opera di new journalism che è un buon complemento dello show Hbo nella narrazione dell’altra Valley, quella dei falliti o della bassa manovalanza tecnologica, sfruttata e frustrata mentre attorno a loro piovono milioni. Perché questa è la grande verità celata: non tutti sono geni. C’è chi prova, studia, fatica per anni e non combina nulla, chi sbaglia un dettaglio e viene travolto dal destino, mentre «un Ph.D. in intelligenza artificiale dal Mit può generalmente incontrare un investitore indossando reggiseno fatto di noci di cocco, improvvisare una serie di versi d’uccelli e uscirsene comunque con un milione di dollari» (sempre Kraus).

Un libro, una serie tv e il successo del blog Valleywag, crudele inquisitore della follia techie. Insieme creano un quadro piuttosto chiaro: dopo anni di continua espansione, la Valley si trova ora a rischio bolla (19 miliardi per Whatsapp? 10 milioni di dollari a un Dropbox per oggetti «fisici»?), mentre ha perso la verginità con lo scandalo Nsa, promuovendo le sue aziende a colossi multinazionali come tutti gli altri. E il risultato è che “Don’t Be Evil”, lo storico motto di Google, azienda produttrice di computer facciali in grado di registrare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, sembra oggi una frase sarcastica.

Immagine: scene da Silicon Valley (Hbo)

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