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Parliamo tanto di cibo e mai di chi lo raccoglie
La storia di Satnam Singh è l'ultima di una lunghissima serie di tragedie dell'agricoltura italiana: ma dalla morte di Jerry Masslo nel 1989 a oggi non è cambiato niente.
Una delle poche situazioni in cui posso dire: io c’ero. Niente di allegro. Però c’ero quando nel 1989 Jerry Essan Masslo fu assassinato, in una assurda, crudele rapina degenerata in una sparatoria: quattro persone si intrufolarono nel capannone dove 28 immigrati erano crollati dopo ore e ore passate sotto il sole di Casal di Principe, a fine agosto. I quattro avevano chiesto i soldi e uno si era rifiutato, e ci credo, si era a fine campagna raccolta dei pomodori, significava perdere tutto il guadagno e insomma nella lite uno aveva sparato e Jerry Essan Masslo e un suo connazionale erano finiti in mezzo, Masslo non ce l’aveva fatta.
C’ero, ma non a via Gallinelle, dove c’era il dormitorio. A quel tempo, nel 1989, gestivo due aziende agricole, la Balzana e la Moscarelli, tra Casal di Principe e Mondragone e ogni mattina vedevo fermi, appollaiati nel famoso quadrivio, schiere di persone in attesa del caporale. In qualsiasi angolazione la scena era sempre la stessa. Arrivava uno e diceva tu, tu e tu, e tutto questo all’alba, tra irrigatori che pompavano acqua, muggiti di bufale e suoni umani gutturali, quasi incomprensibili, si capiva solo tu, tu e tu. Poi i tu, tu e tu venivano caricati sui camion con la raccomandazione di lasciare tutto il di più in loco: perché nei campi si andava leggeri. Quelli non scelti sarebbero tornati l’indomani per una nuova cernita sperando di far parte del tu, tu e tu.
C’ero anche ai funerali di Stato, con un sacco di televisioni e un sacco di belle dichiarazioni, e anche alla manifestazione nazionale a Roma, 200 mila, secondo la Questura, ma eravamo di più.
C’ero perché a Caserta avevamo fondato un’associazione, Africa Italia, ci si occupava degli immigrati che arrivavano, all’epoca in gran parte senegalesi e nigeriani, non solo con i barconi (anche se Jerry Masslo si nascose in una scialuppa di salvataggio di una nave) ma anche in aereo, con un permesso di soggiorno di sei mesi, rinnovabile e che, come gli eserciti di mercenari di una volta, alloggiavano fuori città, in posti assurdi e durante la giornata, poi, gestiti dalla camorra casalese, guerreggiavano nei campi per raccogliere di tutto.
Comunque la reazione fu seria, con la legge Martelli si riconobbe lo status di rifugiato ai richiedenti, sì costruì un villaggio della solidarietà intitolato a Masslo e per un po’ tutti vivevamo all’insegna della società multietnica. All’epoca non si parlava tanto di food, almeno non con l’ossessione odierna, e la narrazione del vino (ormai insopportabile per molti versi), dopo lo scandalo del metanolo, era ancora agli inizi.
Quindi dei braccianti c’era chi se ne occupava. Ci si concentrava più sulla fabbrica che sui prodotti. Diciamo che così sembrava. Nel 1994, il villaggio della solidarietà prese fuoco, la camorra casalese si era scocciata delle associazioni che di tanto in tanto venivano a dare un’occhiata, per non parlare dei preti anticamorra, universitari di Lettere, cattolici e comunisti – diciamo che c’erano tutti, meno gli ispettori del lavoro – e comunque la condizione dei braccianti agricoli è diventata fantasmagoria: sì, ogni tanto appare, l’indignazione sale ma senza incidere più di tanto nell’immaginario. Che dire? Siamo più presi a cercare la ricetta giusta, l’azienda in cima alla montagna che fa cool, quella che puoi instagrammare, siamo più presi a mettere su servizi che mostrano quante delizie può produrre un territorio. Così presi da tutto questo che tra Jerry Masslo e Satnam Singh, quasi 35 anni dopo, non è cambiato nulla, semmai peggiorato.
Sono cambiate le nazionalità dei braccianti, secondo dell’aria che tira, secondo gli schemi della geopolitica, dei flussi delle guerre, delle ambizioni e desideri dei tanti, delle rimesse che chi emigra manda alla sua famiglia. Giusto per dire, per un periodo, nei primi anni 2000, andavano per la maggiore i rumeni, nelle campagne romane raccoglievano di tutto, soprattutto l’uva da vino. Insieme a loro ho anche lavorato, per un reportage che sarebbe dovuto durare quindici giorni, ma dopo due notti passate in pullman (si dormiva lì), senza servizi igienici, con polli da mangiare comprati in rosticceria e birre a volontà, distrutto dalla stanchezza, mi ritrovai una mattina con una dermatite devastante e mi dissi: sai che c’è, me ne torno a casa e scrivo un articolo indignato e tanto basta. Ah, il dermatologo mi chiese: sta passando un momento di stress? Risposi sì, da due giorni solo.
Non ce ne occupiamo più tanto dei braccianti, vuoi perché non sono instagrammabili, vuoi perché a noi piace tanto fare i buffoncelli sul cibo e sul vino, siamo tutti nutrizionisti, convinti che questo o quell’alimento faccia bene o male, che questo o quel vino ci faccia fare bella figura, vuoi questo, vuoi quest’altro ma la fabbrica meglio non analizzarla.
Già sull’agricoltura regna un immaginario antico e disturbante, che rifugge la modernità, mai e poi mai parlare di raccolta meccanica, no, dobbiamo raccogliere a mano, un prodotto alla volta, poi portare che so, le olive al frantoio, naturalmente in pietra. Sull’alimentazione ci piace dire cose alla Panzironi, alla Berrino o facciamo eco all’ultimo influencer di grido che su TikTok comincia il video buttando via il pane e la pasta o ci divertiamo a ridacchiare dell’ultima intemerata autarchica del ministro Lollobrigida.
Siamo troppo presi da problemi fantasiosi, quelli classici del benestante, ogni tanto ci concentriamo indignati sui pesticidi (termine da abolire, si chiamano agrofarmaci), sugli allevamenti intensivi (ma quando ci troviamo a camminare su un pascolo estensivo e pestiamo un’enorme cacca di una vacca o veniamo assaliti dalle mosche, allora sotto sotto pensiamo ma perché non chiudiamo gli animali in un recinto?).
E quindi, come funziona la fabbrica? Domanda non pervenuta. La fabbrica funziona male. Vi ricordate il vecchio slogan, ora censurabilissimo, come mai sempre in culo agli operai, bisognerebbe coniarne uno simile per i braccianti agricoli. Stanno peggio di tutti, loro sì che mangiano male, che pestano merde, reali e metaforiche, lavorano allo stremo e guadagnano niente: la dimensione lavorativa dei braccianti agricoli italiani ha poco da invidiare ai più noti lavoratori dei campi ai tempi dello schiavismo.
Alessandro Leogrande scrisse nel 2005 Uomini e caporali, un reportage tra gli schiavi della Puglia, durante il quale lo stesso narratore si sorprendeva a confrontare l’abissale e crudele differenza che passava tra i pomodori che raccolgono gli schiavi e i suoi lieti ricordi di conserve fatte in casa. Tra gli slogan che ancora oggi si ascoltano: come coltiviamo noi nessuno, come cuciniamo noi nessuno, come siamo fichi noi nessuno, ma le schiene spezzate e i corpi martoriati di chi lavora nei campi no, quest’ultimi sono esclusi, ovviamente, dalle citazioni dell’influencer di turno, dello chef intellettuale, dell’intellettuale progressista che parla solo di cibo e se affronta il tema bracciantato sceglie quelli che vengono bene nelle brochure illustrative.
Ci speculano tutti sui braccianti, a volte gli stessi connazionali dei braccianti. Nelle Marche è abbastanza noto il caso di una cooperativa fondata da un cittadino extracomunitario che nel giro di pochi anni è diventato il re dei braccianti. Costui propone braccianti all’agricoltore che li assume ma deve versare Iva e contribuiti direttamente alla cooperativa. Lui diligentemente lo fa, e poi finisce che la cooperativa fallisce senza versare l’Iva né i contributi e i lavoratori restano, simbolicamente, amputati del loro futuro pensionistico. Come se non bastasse, tempo dopo, l’Agenzia delle Entrate, in forza della legge sugli appalti che prevede corresponsabilità, va dall’agricoltore che aveva assunto i braccianti e gli chiede di versare nuovamente i contributi, più Iva, ovviamente. Ah, poi la cooperativa riapre, sotto altro nome, ma con la medesima procedura: l’imprenditore è ricchissimo, alla faccia dello spirito cooperativistico, i braccianti no.
Quando parliamo di agricoltura, siccome siamo ormai benestanti, volgiamo il nostro sguardo al settore wellness e intestino puro (alcuni puristi dell’intestino, per l’ossessione che hanno per le impurità e per il proprio intestino e il disinteresse per quello degli altri mi fanno paura) e non ci preoccupiamo della fabbrica e di quelli che ci lavorano e muoiono perché ci concentriamo su problemi fantasiosi. Si sa la fantasia attira di più ed è tanto elogiata dai creativi, ma certe fantasie alimentari sono cosi stolte e diffuse che poi procurano un grande danno sull’analisi della realtà, agricola e non solo.