Stili di vita | Luoghi
Salento uggioso
Quello di Maruggio è molto diverso dal Salento che si legge sui giornali d'agosto: racconto emotivo di un'estate pugliese in cui molto è cambiato ma qualcosa è rimasto.
La spiaggia di Monaco Mirante
Per tutta la mia vita ho frequentato una spiaggia libera ma così libera che nessuno si era mai preso il disturbo di indicarla tramite segnaletica stradale. Per me e per gli altri felicemente pochi che sapevano che quel posto c’era e avevano in testa la mappa per raggiungerlo, era come essere a conoscenza della via per Avalon. Il nome di questo luogo era un segreto che sussurravamo all’orecchio di chi ci piaceva, sperando che l’esclusività diventasse fascino e la condivisione amore. Era un posto così segreto che accedervi era un’avventura: la spiaggia era alla base di un’alta duna di sabbia, una discesa resa a malapena possibile da una serie di blocchi di tufo sotterrati nella sabbia (chissà da chi, chissà quando) a formare le rovine di una scalinata, punte biancastre che emergevano dal giallo-rosa della sabbia come denti spezzati dalle gengive di un alcolizzato. Da ragazzino mi divertivo a immaginarmi su e giù per quel tentativo di scalinata come Frodo e Sam che vanno e vengono dal passo di Cirith Ungol. Riuscire in quella discesa era una prova di coraggio, un rito di iniziazione per dimostrarsi degni della bellezza che stava oltre il pericolo. Solo da adulto ho scoperto che il mare dietro quella duna ha un nome deliziosamente fantasy: mare dei sette colori, la conta delle sfumature di azzurro visibili grazie alle correnti di acqua dolce sparse qua e là, fiumiciattoli subacquei che rendono questo mare così limpido da sembrare finto.
Tornando in questo posto delle fragole dopo due anni di assenza causa pandemia, sono stato costretto ad ammettere che io e i felicemente pochi non siamo stati granché bravi come custodi del segreto. Lo so che il segreto non era tale e soprattutto non era mio, ma era tanto bello pensarlo quanto è stato spiacevole osservare la mia irrilevanza manifestarsi nelle cose successe in mia assenza, nonostante la mia assenza. I blocchi di tufo sono spariti, sostituiti da una scalinata vera e propria, larga e comoda, di legno e ferro, con tanto di corrimano. Pare fosse lì da un pezzo ma io ci ho fatto davvero caso solo ora perché mi sono chiesto chissà che ne hanno fatto, dove hanno messo i blocchi di tufo: forse è vero quel che si dice della pandemia, che ci ha costretto a vedere cose che stavano già succedendo o che addirittura erano già successe. Con la scalinata è venuto il traffico: ora la gente lascia la macchina a metà tra dove finisce l’asfalto e dove comincia la sabbia, accedendo alla spiaggia senza bisogno di mettere in pre-allerta un’ambulanza. Con il traffico è venuta la segnaletica stradale: diversi cartelli hanno provveduto a svelare il segreto, a riempire lo spazio bianco sulla mappa, a dire che questo posto si chiama Monaco Mirante, che per tanti anni è stato per me il nome vero e segreto del mare.
E alla fine cosa era quel segreto? Un pezzetto di sabbia fina e scogli scivolosi, l’ultimo lembo di una costa lunga appena 9 chilometri, confine estremo dell’affollata emanazione estiva – Campomarino – di un Comune deserto d’inverno: Maruggio, in provincia di Taranto, descritto in un leggendario articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno come “ridente paesotto di cinquemila anime” al tempo della prima proposta di istituzione dell’attuale Parco delle Dune (1995 o giù di lì). Capiamoci: va bene che il segreto sia stato rivelato. La civiltà sta in una infrastruttura che consenta di fare il bagno senza rischiare l’osso del collo. Il progresso sta nelle recinzioni che impediscono la distruzione della macchia mediterranea una teglia di patate al forno alla volta (se le dune hanno gli occhi, esse sanno quanta biodiversità è andata persa ogni volta che mia madre mi mandava a raccogliere “giusto un mazzetto” di rosmarino-finocchietto-ginepro-timo). Il progresso sta in un cartello che ti presenta ufficialmente i fiori che conosci personalmente da una vita: questo con gli aghi striati di bianco è il ginepro coccolone, quello simile ma non uguale è il ginepro fenicio, la pianta dalla quale spuntano quei fiorellini che sarebbero insignificanti non fosse per quel capolino fucsia e i petali bianchissimi si chiama elicriso.
l tratto di Litoranea Salentina che passa accanto a Maruggio unisce la depressione post-industriale dei tarantini e la sovraeccitazione turistica dei leccesi, in un viaggio che è sempre e comunque all’indietro nel tempo
Monaco Mirante sta dentro Campomarino che sta dentro Maruggio, che non è il Salento che si legge sui giornali d’agosto. La Praja e Punta Prosciutto stanno più a sud, la Valle d’Itria e il triangolo della carne alla brace Martina Franca-Cisternino-Locorotondo stanno a nord-est, il Gargano è talmente distante e così diverso che potrebbe essere il Trentino Alto Adige. Non che sia così lontano, il Salento che si legge sui giornali: guardando a est e a ovest di Monaco Mirante si possono intuire il lido Piri Piri e San Pietro in Bevagna, si riesce a distinguere la spiaggia colorata alla maniera del puntinismo dall’ammasso di ombrelloni e teli da mare. Il tratto di Litoranea Salentina che passa accanto a Maruggio unisce la depressione post-industriale dei tarantini e la sovraeccitazione turistica dei leccesi, in un viaggio che è sempre e comunque all’indietro nel tempo: dal barocco all’altoforno o viceversa, dall’industrializzazione al turismo o viceversa.
Identità, quella tarantina e quella salentina, che i maruggesi trascurano, preferendo quella che vien dal mare, “il grande fratello blu” dal quale hanno preso nome ed essenza: mar-uggio, mare uggioso, la noia della tramontana che secca le labbra fino a spaccarle e l’inquietudine dello scirocco che lecca la pelle tenendola umida per ore. Mar-uggio, mare uggioso, forse diventato così a forza di farsi guardare da occhi annoiati e inquietati: lungo questo pezzo di costa, per quattrocento anni i Cavalieri di Malta hanno trascorso le giornate appollaiati sulla Torre dell’Ovo dalle parti di Torricella, su quella delle Moline in mezzo al porto di Campomarino e su quella di Borraco al confine con Manduria: ore e ore di noia, poi l’inquietudine di un vessillo saraceno all’orizzonte, di una tonnara che cola a picco. E ora che saraceno non vuol dire più nulla e che delle tonnare rimangono le ancore che macchiano il fondale senza scogli, resta l’uggia, un’eredità di noia e inquietudine per i fatti del mondo che i cavalieri stemperavano sgranocchiando le stesse tre olive (cellina, frantoiana e oliarola) con cui oggi si fa l’olio buono e scolandosi bottiglie di Malvasia Nera, la bacca nera venuta dall’Egeo, il vitigno che c’era già secoli prima che una nobildonna delle Murge facesse dono al marito manduriano di una pianta di primitivo estratta dalle terre del padre, dando inizio a un’egemonia oggi consumata ai tavoli delle masserie e conservata nelle botti delle cantine (tra cui quella che Bruno Vespa ha comprato a Manduria, cosa che non so perché mi fa ridere).
Noia e inquietudine per i fatti del mondo. I fatti del mondo arrivano a Maruggio attraverso l’immagine della Puglia che il mondo ormai s’è fatto e che si aspetta di ritrovare in ogni parte di questo peduncolo di terra riarsa. Il mondo sta quindi nella piazza principale del paese, piazza San Giovanni: sta nella rosticceria che oggi serve puccia al polpo solo perché nel sangue dei baresi scorrono generazioni di paraculaggine levantina; sta nel bar-pasticceria che sforna pasticciotti a tutto spiano perché ormai ci si aspetta di trovare il barocco leccese in ogni blocco giallognolo di carparo, la pietra delle cave salentine; sta nel fornaio nascosto in una delle viuzze dello sciangài, il centro storico, nella spericolatezza fusion dei suoi nuovi taralli farina di Senatore Cappelli-curcuma-uvetta-cipolle, nella ricetta così difficile da spiegare che lo sforzo gli infradicia i baffi e disegna un arco umido sulla mascherina chirurgica e la trasforma in una maschera che piange. Ma esistono sacche di resistenza, gruppi di freedom fighters che si muovono furtivi tra le pale dei fichi d’India e i cespugli di macchia. Qualcuno in rosticceria resiste e scrive ancora pipaluri spritti invece di friggitelli. Qualcuno nel bar si oppone e a pranzo suggerisce ai clienti che vogliono le orecchiette la mescolanza con i pizzarieddi, l’altra pasta fresca locale. Qualcuno nel retrobottega del fornaio si ostina a ribadire la differenza tra i panzerotti e i pezzuri cuocendo questi ultimi al forno, come quando l’olio era troppo prezioso per il deep frying, e farcendoli con la puzzolente e deliziosa ricotta ascuante. Qualcuno in pizzeria si impunta sulla differenza sostanziale tra la pizza e il pizzu, quest’ultimo un’ossessione locale che un eretico potrebbe descrivere come l’ibrido tra la pie salata degli inglesi e la deep dish pizza chicagoana.
Da quando è cominciata la pandemia mi chiedo cosa deve restare per dare un senso a quello che abbiamo dovuto superare. Il primo giorno in cui sono andato ammare, cioè in cui sono tornato al Monaco Mirante, ho trovato in spiaggia un quartetto di turisti la cui cadenza ugro-finnica mi diceva potenzialmente tutta la Lombardia ma sicuramente non Milano. Avevano sistemato quattro sdraio sul bagnasciuga, una accanto all’altra, un abbozzo di fila per godersi lo spettacolo naturale. A un certo punto vedo l’inquietudine rompere la loro concentrazione: un uomo con in mano un coltello cammina nella loro direzione. Loro, i turisti, naturalmente non lo potevano sapere che lui, l’uomo, era soltanto annoiato: qui una persona che passeggia sulla sabbia brandendo un coltello sta (nella maggior parte dei casi, eh) andando a caccia di cozze patelle perché comincia ad annoiarsi a stare ammollo nell’acqua o distesa sulla sabbia. Le patelle sono piccoli molluschi che si attaccano agli scogli grazie a un piede-ventosa che solo con l’ausilio di un coltello si può riuscire a forzare. Si mangiano, le patelle, sia cotte che crude: crude sembrano una Fruittella Gelée al sale grosso, un cristallo di sale marino gelificato. Guardando l’inquietudine sul volto dei turisti e la noia su quello del patellaru, ho pensato che almeno qui, in questa striscia di sabbia fina e scogli scivolosi, la risposta a quella domanda ce l’ho: resta la noia e l’inquietudine, l’uggia, il mare uggioso, mar-uggio.