Aveva 89 anni, nessun attore americano ha saputo, come lui, fare film allo stesso tempo nazional popolari e politicamente impegnati.
La peggiore controindicazione della fama è piacere a persone detestabili. Robert Redford è stato talmente famoso che è piaciuto e piace a un certo numero di persone detestabili. Tra queste persone detestabili, abbiamo scoperto ieri, c’è anche Donald Trump: «Ci sono stati anni in cui non c’era nessun più bravo di Robert Redford. C’è stato un momento in cui era il più figo. Penso fosse un grande», ha scritto il Presidente dell’attore, con il consueto eloquio. Per fortuna, queste cose Trump le ha scritte nel giorno in cui Redford è morto e almeno l’amarezza di piacere proprio a questa persona detestabile se l’è potuta risparmiare. Redford, che in politica ha sempre avuto le idee piuttosto chiare, nel 2019 aveva scritto un editoriale su Nbc in cui definiva la prima presidenza Trump «un attacco dittatoriale a tutto ciò che questo Paese rappresenta». Con la testardaggine, la purezza, l’ingenuità del vecchio liberal americano, nel 2019 Redford ancora credeva che il suo Paese rappresentasse davvero qualcosa di diverso da quello che rappresenta Trump. Spero che in questi anni sia rimasto abbastanza isolato nel suo Sundance Resort in Utah da evitarsi tutte le dimostrazioni, continue, quotidiane, inequivocabili del contrario.
Redford aveva 89 anni, tanti quanti ne aveva Pippo Baudo, fatto segnalatomi da un amico e che mi ha inspiegabilmente stranito. Non è strano pensare che Robert Redford e Pippo Baudo avessero la stessa età, che fossero entrambi così vecchi da morire nello stesso anno, a pochi giorni di distanza? Ma gli 89 anni di Redford significano anche che ha vissuto quasi tutta la sua vita in un mondo che aveva ancora uno straccio di senso, un briciolo di ordine. Un mondo in cui la parola liberal significava ancora qualcosa – in inglese americano, sinistra moderata, centro sinistra, progressismo, una dicitura precisa ma comunque larga abbastanza da permettere a Redford di sostenere politici sia democratici che repubblicani senza incorrere in accuse di trasformismo – perché pure la parola conservatore significava ancora qualcosa, un mondo in cui nessuno immaginava che un giorno saremmo finiti a parlare di groypers. Quando il mondo ha senso, il cinema ha senso, e questo è probabilmente l’aggettivo che meglio di tutti descrive la carriera di Redford, da attore prima e soprattutto, poi e anche da regista. Ha fatto film che avevano senso: film allo stesso tempo popolari e politici, rappresentativi (di sé, del suo Paese, della sua generazione) e partigiani, radicali e posati, apocalittici e integrati.
L’importanza di chiamarsi liberal
Prima ho scritto che Redford era un liberal, ma è una mezza verità come è una mezza verità il fatto che il suo mondo avesse senso (ce lo aveva più del nostro, certo, ma c’è una notevole differenza tra una cosa e l’altra). Negli anni ’70, in quel decennio irripetibile in cui, come ha scritto Trump, era indiscutibilmente the hottest, Redford è stato il protagonista di film che hanno scritto il manuale del cinema impegnato all’americana: Il candidato, Come eravamo, La stangata, I tre giorni del condor, Tutti gli uomini del Presidente. Film senza alcun dubbio politici, così come senza alcun politiche erano le intenzioni dei registi che li hanno diretti e di Redford che li ha interpretati. Ma anche film fraintesi, come sempre succede ai film politici in momenti di polarizzazione estrema (cioè sempre). A rivederli oggi, questi film, altro che liberal: se di poetica si può parlare per un attore, quella di Redford era semmai fatta di sfiducia, di sfida, di sprezzo nei confronti di un sistema all’epoca considerato inevitabile e nei confronti del quale lui nutriva una evidente diffidenza. Il bipolarismo perfetto, la democrazia dell’alternanza, la convergenza tra bene pubblico e interessi privati, il giornalismo come cane da guardia del potere, la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili (cioè negli Stati Uniti d’America): tutte certezze che Redford ha affrontato e sconfitto.
Non fosse stato così bello, non avesse portato sul volto tutti i segni della bellezza all american – capelli lisci e biondi, occhi azzurri, mascella squadrata, un sorriso che le celebrity di oggi spendono migliaia di dollari in faccette dentali per sfoggiare, un corpo da studente universitario pronto a partecipare alle Olimpiadi con la nazionale di atletica leggera – probabilmente questa battaglia gli avrebbe lasciato addosso segni parecchio più profondi. Ma l’America tollera anche i sovversivi, a patto che siano giovani, belli, ricchi, eroici, famosi. E Redford era così bello da far innamorare non una, non due ma addirittura tre volte Jane Fonda. L’unico impedimento a una storia che tutti davano per scontata fu, a detta di Fonda, che a lui non piaceva baciare. Frase interpretabile, anche in modi assai salaci.
L’intellettuale dissidente
Uscissero oggi, quei film citati prima, probabilmente li definiremmo complottisti o populisti. Negli anni ’70, in quel decennio irripetibile, di certe etichette non serviva preoccuparsi: ci si aspettava che gli artisti fossero contro, anche a costo di contraddizioni e fraintendimenti. Quel decennio d’oro fu la formazione non solo artistica, non tanto politica, ma propriamente etico-filosofica di Redford, che fino alla fine aderirà a questa sorta di Manifesto degli intellettuali antisistema (il suo impegno per il cinema indipendente sarà tanto questo quanto un impegno contro il cinema mainstream). Pur essendo un uomo capacissimo di apprezzare i piaceri che fama, bellezza e ricchezza offrono, improvvisamente decise di mollare Hollywood, Los Angeles, la California (di fatto, lo star system) e andarsene dove non c’era quasi niente e quasi nessuno.
Esistono molte e diverse definizioni di star power, ma forse la più efficace è questa: ho comprato un enorme resort tra le montagne dello Utah, e mi sono trasferito lì, e lì, dove non c’è quasi nessuno e quasi niente, ho deciso di fare un festival cinematografico, e ho deciso che questo festival cinematografico lo chiamerò come il personaggio che mi ha reso famoso al cinema, e che sarà uno dei festival cinematografici più importanti del mondo, e che darà spazio a tutti i talenti che Hollywood non riconosce più, e che sarà il titolo del primo capitolo delle biografie di tutti i venerati maestri e le venerate maestre che verranno. Ecco, se questa è davvero la più efficace definizione di star power, nessuno ha posseduto tanto star power quanto Redford, perché nessuno è riuscito a fare quello che ha fatto lui con il Sundance Film Festival. Forse è bene che sia morto il 16 settembre del 2025, a un anno di distanza dal trasferimento del suo festival da Park City, Utah, a Boulder, Colorado, per questioni di sgravi e incentivi fiscali. Finché il Sundance Kid è vissuto, il Sundance Film Festival si è tenuto vicino al Sundance Resort. Anche questa è una cosa che ha avuto senso, nella sua vita.
Da Hollywood alle montagne dello Utah, passando per l’Havana
Negli anni ’90 e 2000 Redford aveva recitato sempre meno e in film sempre meno rilevanti. Non che la cosa gli interessasse più, ovviamente: aveva smesso da tempo di definirsi un Hollywood man, perché gli uomini di Hollywood si ostinavano a non capire che «non si può più fare arte come si fanno gli affari, ma loro comunque ci provano. I film per questa gente sono come gli aspirapolvere o i frigoriferi. È un approccio che mi disgusta». Il suo tempo, le sue risorse e il suo talento aveva deciso di impiegarli in altra maniera. Uno degli aneddoti più curiosi dell’incredibile vita di Redford è che c’era solo un grado di separazione tra lui ed Ernesto Che Guevara. La storia è questa: tra le tante amicizie inaspettate – la foto che lo ritrae assieme a Gianni Minà e Fidel Castro vi sarà apparsa nel feed, in queste ore – c’era quella con Gabriel García Márquez. Redford voleva convincerlo a tenere un corso in spagnolo al Sundance Institute, proposta alla quale Márquez rispose così: io vengo a Sundance con te se tu vieni a Cuba con me. Redford accettò, andò a Cuba, all’Havana conobbe la vedova di Che Guevara e la convinse a fargli fare un film tratto dall’autobiografia del marito. Film che divenne I diari della motocicletta.
Quasi mi dispiace dire che l’ultimo ricordo che ho di Redford è la sua partecipazione a un film del Marvel Cinematic Universe. In Captain America: Winter Soldier interpreta Alexander Pierce, uomo forte dello S.H.I.E.L.D, l’organizzazione che dovrebbe proteggere l’America da minacce interne, esterne ed extraterrestri. Si scopre poi, nel corso del film, che Pierce è in realtà un agente dell’Hydra, antitesi dello S.H.I.E.L.D, un’organizzazione malvagia, distruttrice, apocalittica. Di tutti i film con e di Robert Redford che potevo rivedere ieri, ho scelto di rivedere proprio questo. E rivedendolo ho notato come l’unico momento propriamente cinematografico del film fosse un piano americano con lui al centro, al che ho pensato che se c’è un’altra definizione appropriata di star power è riuscire a portare, a essere, a fare cinema persino nel Marvel Cinematic Universe.
Poi ho notato, per la prima volta, che Alexander Pierce è in fondo solo un altro mezzo per mandare lo stesso messaggio che Redford ha mandato da Hollywood negli anni ’70 e dal Sundance per il resto della sua vita: dubitate sempre e di tutto, soprattutto delle istituzioni e dei leader. E alla fine mi sono deciso a scegliere la definizione di star power più appropriata di tutte: potersi permettere di essere sempre la stessa cosa, a distanza di cinquant’anni tra la prima volta e l’ultima, tra le colline di Hollywood e le montagne dello Utah e le viuzze dell’Havana, dentro il ricchissimo carrozzone Marvel o tra le ristrettezze del cinema indipendente. Che è una definizione appropriata anche della vita di Robert Redford.

Come si costruisce un ecosistema editoriale che sfida le convenzioni e racconta la contemporaneità? Ne parlano Valentina Ardia, editor in chief, e Cristiano de Majo, direttore esecutivo, domenica 14 settembre, ore 12.