Attualità | Cronaca
La morte di Ramy Elgaml mostra ancora una volta i problemi dell’Italia (e di Milano) con l’immigrazione
Una città che marginalizza, un Paese che esclude, la repressione come risposta.
Non è soltanto morto, Ramy Elgaml. Si muore di infarto, si muore di cancro, ma non si muore se si è inseguiti da tre volanti dei Carabinieri che cercano di speronare a ogni curva il motorino su cui stai viaggiando. Che lo speronino o no – che si verifichi un contatto tra la carrozzeria del mezzo a due ruote e la carrozzeria del mezzo a quattro ruote – non importa poi molto, visto che, contatto o meno, l’intenzione degli inseguitori è chiaramente quella di fermare la fuga di Ramy Elgaml e dell’amico Fares Bouzidi, anche a costo di ucciderlo. Alla fine ci riescono.
Le immagini trasmesse dal Tg3 martedì 7 gennaio 2025, che mostrano le dashcam delle volanti dei carabinieri che inseguono il T-Max di Ramy, e che mostrano anche il contenuto di certe telecamere di sicurezza, fanno venire i brividi, prima, e gli incubi, poi. In misura minore per il contenuto visuale, soprattutto per gli audio che le accompagnano. «Vaffanculo, non è caduto», dicono i militari una prima volta quando, appunto, il motorino prende una curva radente al suolo ma non cade. Altra curva: «Vai chiudilo, chiudilo che cade». Non cade: «No merda, non è caduto». Infine la caduta, probabilmente provocata direttamente dalla volante che, insieme allo scooterone, si abbatte su un palo. La comunicazione finale tra le volanti: «Via Quaranta-Ortles, sono caduti». Risposta: «Bene».
Cosa ci rimane come società e cittadini, ora, con questi video in mano, e al netto di procedimenti giudiziari che saranno lunghi e tortuosi e non è affatto scontato immaginare anche che saranno complicati da accettare nei loro sviluppi per chi chiede una giustizia chiara e netta per un 19enne morto così? Come possiamo prendere questa evidenza di immagini e questa rabbia che proviamo in tanti e in modo diverso, e questo senso di impotenza anche, e provare a usarle per creare qualcosa di critico e costruttivo?
Dovremmo intanto partire da un fatto incontrovertibile: le dashcam e le bodycam da installare sui mezzi e sulle divise delle forze dell’ordine servono. Servono a fare luce, servono a fare informazione, servono a rendere trasparenti fatti che verrebbero altrimenti coperti da manipolazioni e omertà. In Italia la senatrice di Sinistra italiana Ilaria Cucchi ne ha fatto una battaglia politica che va avanti da anni, ed è stata in parte recepita (sulle bodycam), mentre un altro miglioramento importante della richiesta di trasparenza, ovvero il numero identificativo per ogni agente, sembra ancora lontano dal realizzarsi.
Dobbiamo poi parlare di cosa sta succedendo a questo Paese, da un lato, e alla città di Milano, in parallelo. La rabbia delle manifestazioni di dicembre nel quartiere Corvetto per chiedere giustizia per Ramy, all’indomani della sua morte, vanno guardate senza paura e senza disprezzo, vanno capite. Devono fare forse paura soltanto perché potrebbero essere di più, essere più forti, e avere ancora più ragione. La profilazione razziale, nell’operato delle forze dell’ordine italiane, è un problema evidente e, con questo governo e questo ministro delle Infrastrutture travestito da ministro dell’Interno, andrà peggiorando. Si chiama profilazione razziale e si legge razzismo istituzionale: è un modus operandi che fa sì che i fermi, i controlli e la violenza siano estremamente più diffusi su certi gruppi etnici minoritari. La Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), nel suo rapporto del 2024 dedicato all’Italia, sottolinea la resistenza di atteggiamenti sistemici discriminatori e violenti da parte delle forze dell’ordine. Un esempio recente ed eclatante di questo razzismo di Stato furono le dichiarazioni del sopracitato ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, arrivate dopo l’uccisione il 20 ottobre 2024 del maliano Moussa Diarra a Verona per mano di un agente della PolFer. Un tweet capace di unire spietatezza, arroganza e quella crudeltà che non può che appartenere ai meno umani tra gli uomini: «Non ci mancherai».
Il 31 dicembre 2024 il calciatore belga Stephane Omeonga, ex Genoa che gioca oggi nel Bnei Sakhnin in Israele, ha postato su Instagram il video di un’aggressione avvenuta da parte di agenti della polizia italiana su un aereo diretto a Tel Aviv da Fiumicino. Nel video vediamo un agente afferrare Omeonga per la testa, ficcarsela sotto l’ascella, poi trascinarlo fuori con una mano alla gola. Omeonga ha detto che, una volta sceso dall’aereo, è stato buttato a terra e picchiato. La polizia non ha ancora dato spiegazioni ufficiali.
La morte di Ramy Elgaml deve farci però aggiungere un tassello a quello delle categorie marginalizzate: quello dei giovani. Un Paese sempre più vecchio, governato da una parte politica che ha impostato sulla conservazione, e quindi sulla fascia d’età più anziana, la sua fortuna e il suo futuro elettorali, non può che considerare pericolosa la categoria sociale dei giovani. Ancora peggio se i giovani sono stranieri. Italiani non lo sono di certo, sempre per forte volontà istituzionale: l’accesso alla cittadinanza, per chi nasce in questo Paese da genitori a loro volta non italiani, è un processo burocraticamente tortuoso e naturalmente frustrante. Ogni tentativo di introdurre non soltanto lo Ius Soli, ma anche lo Ius Culturae o lo Ius Sanguinis, è stato sbeffeggiato e affossato da Fratelli d’Italia e Lega. È stato infine un atto di repressione verso la categoria dei giovani uno dei primi decreti legislativi del governo Meloni: il cosiddetto “decreto rave” che punisce con la reclusione da 3 a 6 anni l’atto di “invasione di terreni o edifici allo scopo di organizzare raduni di oltre 50 persone pericolosi per l’ordine pubblico o la salute pubblica”.
Dobbiamo infine parlare della città in cui Ramy è stato ucciso, laboratorio in molti sensi da più di un decennio: di città italiana davvero globale nella prima metà degli anni Dieci, con l’amministrazione Pisapia e i primi anni di Beppe Sala; di città italiana messa seriamente in difficoltà nel governare le peggiori dinamiche della crisi della globalizzazione negli ultimi cinque anni: gentrificazione, marginalizzazione, diffusa percezione di insicurezza, disinvestimento nella cosa pubblica, finanziarizzazione del mercato immobiliare, violenza. Milano sta scoprendo cosa sono le banlieu e se ne sta ferma a guardare, incapace di dare una risposta politica.
In città gli immobili di proprietà pubblica che dovrebbero agevolare la vita delle fasce più in difficoltà economica della cittadinanza, come spiegava Vincenzo Latronico in una recente inchiesta per Internazionale, versano in uno stato disastroso: 15 mila case sono sfitte solo perché inabitabili, e nessuno le può mettere a posto. Ad agosto 2024 si parlò dei problemi di assunzione che stava affrontando l’Atm, l’azienda dei trasporti pubblici cittadina: non riusciva ad assumere trecento conducenti perché lo stipendio che offriva non bastava per vivere a Milano. Se le periferie diventano un rifugio per la cosiddetta “classe grigia”, ovvero chi guadagna più di 20 mila euro all’anno ma meno di 40 mila, e quindi quelle stesse periferie si gentrificano, cosa succede alle classi davvero deboli che vivevano le periferie prima, e che le ritrovano, di giorno in giorno, sempre più inabitabili?
È difficile, a distanza di così pochi mesi, effettuare un’autopsia precisa di cosa sia successo a Milano e al suo tessuto sociale dal post-Covid in poi. L’esplosione della rabbia. L’aumento vertiginoso dell’insicurezza percepita. I maranza, le baby gang: lo spauracchio delle nuove strade milanesi. Per la prima volta nella storia della città più industriosa del Paese le seconde generazioni razzializzate trovano una voce comune in una serie di artisti musicali locali. La produzione musicale è fatta di testi, come scrive Gabriel Seroussi su Studio, «talvolta violenti e nichilisti» che «hanno contribuito a raccontare cosa voglia dire in termini relazionali, economici e affettivi crescere da persone non-bianche in Italia». I giornali si spaventano, raccontano “i maranza” come la nuova minaccia all’ordine pubblico, al decoro, alla tranquillità dei cittadini onesti.
Ma come per il caso delle abitazioni popolari, che dovrebbe essere di competenza nazionale anziché soltanto regionale o comunale, anche questa nuova spaccatura sociale post-Covid ha echi ben più ampi di quelli soltanto cittadini. Ogni anno, a Capodanno, dobbiamo registrare episodi di violenza sessuale in piazza Duomo. Un’analisi lucida l’ha fatta Franco Gabrielli, consulente per la sicurezza del Comune di Milano, a Radio 24 giovedì 9 gennaio: «Il problema non è solo l’immigrazione clandestina, qui è anche il problema di persone che vengono nel nostro Paese e che hanno titolo a starci, perché sono regolarmente soggiornanti ma vivono una condizione di marginalità e di esclusione che poi li spinge verso una deriva che è una deriva d’illegalità, di antagonismo nei confronti della nostra società».
I giornali hanno dato spazio ai video, girati la stessa notte, che mostravano dei ragazzi urlare: «Vaffanculo Italia». Parliamo allora di appartenenza: a che Paese appartieni se quello stesso Paese ti rifiuta, e rifiuta la tua famiglia? E se il Paese ti rifiuta, perché dovresti stare nel contratto sociale che ti richiede? Sia i media che la politica, in Italia, sono ancora occupati da una fascia mediamente privilegiata di persone non razzializzate. La cittadinanza viene percepita come un premio o un merito, mai come un diritto. In Italia si chiama Ius sanguinis, è una questione di sangue. Sappiamo che il sangue è più forte anche di un documento. Eppure, come scrive Valeria Verdolini su Lucy, ogni anno il 22,7 per cento dei neonati in Italia è straniero e lo rimarrà fino ai 18 anni. Poi, grazie alla benevolenza del diritto di sangue, verrà accettato, ma non davvero accolto. Di questo passo la rabbia dei Ramy aumenterà, e non potremo dire che non ce lo aspettavamo.