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La verità, vi prego, sui maranza

Dopo il battibecco tra Rovazzi e le istituzioni milanesi, la parola è tornata d'attualità. Senza che però nessuno ne conosca il vero significato.

di Gabriel Seroussi

Da qualche giorno tiene banco un dibattito contorto su una trovata di marketing ideata da Fabio Rovazzi. Il cantante, domenica 12 maggio, ha realizzato una diretta su Instagram durante la quale, ad un certo punto, gli viene rubato il cellulare da un ragazzo. Si trattava di un furto fittizio che serviva in realtà ad annunciare l’uscita di “Maranza”, il nuovo singolo di Rovazzi in collaborazione con Il Pagante. La messa in scena del cantante ha creato un cortocircuito mediatico, tanto inaspettato quanto utile alla promozione del brano. Molte testate giornalistiche hanno infatti inizialmente riportato la notizia del furto come reale, dovendo poi smentirsi a poche ore di distanze. In tanti si sono quindi scagliati contro l’artista sostenendo che stesse ledendo l’immagine pubblica di Milano e prendendo in giro le persone che hanno realmente subito rapine. L’assessore alla Casa del comune di Milano Pierfrancesco Maran ha minacciato Rovazzi di denunciarlo per i danni di immagine che avrebbe provocato alla città. Il questore Giuseppe Petronzi ha definito il gesto del cantante irrispettoso nei confronti della cittadinanza. Lo stesso sindaco Beppe Sala è intervenuto segnalando «un degrado nel comportamento e nel senso civico, che indubbiamente è un rischio per la nostra comunità». Rovazzi si è difeso, sempre attraverso il suo profilo Instagram, affermando che «l’accostamento reato-Milano è stato fatto dalla stampa e dai politici. Forse si è trattato di un riflesso condizionato perché Milano è effettivamente in una situazione disastrosa». Nel frattempo, mercoledì notte, “Maranza” è uscita su tutte le piattaforme digitali. Il brano, come si poteva facilmente intuire, ironizza sulla figura del maranza, servendosi di stereotipi e luoghi comuni. Se c’è una cosa che infatti unisce Rovazzi e i suoi detrattori è il totale disinteresse per i maranza stessi, ormai oggetti inanimati da dare in pasto al dibattito pubblico. Nessuno degli attori in campo si chiede chi siano effettivamente queste persone, se sia giusto farne una macchietta a fini del marketing, se sia corretto utilizzarli come arma di propaganda politica per alimentare insicurezze e pregiudizi razzisti e classisti.

In questo senso la storia del termine “maranza” parla già abbastanza da sola. Con questa parola oggi si identifica una persona giovane, di sesso maschile, solitamente cresciuta in periferia, che ostenta atteggiamenti “di strada”, ascolta musica rap e indossa capi d’abbigliamento e accessori appariscenti, legati al mondo dello streetwear. Spesso, ma non necessariamente, il maranza ha origini nord-africane o proviene, comunque, da una comunità razzializzata. A contraddistinguere esteticamente questa figura sono soprattutto alcuni indumenti, come per esempio le tute delle squadre di calcio, le scarpe TN della Nike e le polo Lacoste. Il maranza esiste, però, nel lessico delle periferie milanesi fin dagli anni Ottanta. All’epoca, con questo termine veniva inteso semplicemente un ragazzo di periferia dall’atteggiamento spavaldo, un sinonimo di parole tutt’ora utilizzate, come ad esempio “coatto”, “tamarro” o “zarro”. Il termine non aveva infatti alcuna connotazione a livello di scelte di abbigliamento, di gusti musicali e, soprattutto, di provenienza etnica.

Quasi scomparsa negli ultimi quindici anni, la parola “maranza” ha avuto una nuova vita a partire dal 2020. Grazie a TikTok, e poi ai media tradizionali, i maranza sono diventati, quasi di colpo, lo spauracchio delle strade milanesi. Il tutto è avvenuto a cavallo del Covid. Subito dopo la crisi pandemica, la percezione di una fascia ampia della popolazione milanese è stata che la città fosse diventata più pericolosa. Una sorta di “moral panic” totalmente smentito dai dati forniti dalla Questura di Milano, che vedono una decrescita dei fenomeni criminali in città. È proprio in quella fase, incerta e delicata, che figure come i maranza, o le famigerate baby gang, (ri)entrano a far parte dell’immaginario collettivo come portatrici di disordine sociale e violenza. Oggi il termine ha quindi subìto un processo di risignificazione, tanto da essersi diffuso il falso mito che “maranza” sia frutto della crasi tra la parola “marocchino” e il vocabolo “zanza”, che in dialetto milanese identifica il ladro.

In un Paese già fiaccato da anni di retorica islamofoba e razzista, entra quindi nell’immaginario collettivo una nuova figura, perfetta per alimentare paure ancestrali. Tutto ciò ha però una causa evidente. Sempre a cavallo del Covid è avvenuta l’esplosione, per la prima volta in Italia, di una generazione di artisti italiani non-bianchi. Decine di rapper provenienti da comunità razzializzate – solitamente etichettati come “di seconda generazione” – sono diventati, in pochi anni, idoli di moltissimi giovani bianchi. Il successo di questi artisti, alimentato dalla diffusione di TikTok, è stato una vera e propria rivoluzione per il sistema dell’intrattenimento italiano, abituato solitamente a pacificare e a sussumere ogni forma artistica alternativa. I testi, talvolta violenti e nichilisti, di molti rapper di “seconda generazione” hanno contribuito a raccontare cosa voglia dire in termini relazionali, economici e affettivi crescere da persone non-bianche in Italia.

Questa parte della storia, negata dalla maggior parte degli italiani bianchi, ha provocato tanto il timore degli adulti, che preferirebbero distogliere lo sguardo, quanto la curiosità dei ragazzi, emozionati dal poter vedere attraverso il buco della serratura cosa accade al di là del proprio quartiere. È significativo da questo punto di vista la vicenda del rapper italo-marocchino Baby Gang. Oggi il ragazzo ventiduenne è l’artista italiano più ascoltato nel mondo mentre si trova recluso in carcere per motivazioni che stanno facendo discutere. Il rapper ha realizzato infatti una serie di post sui social per promuovere il suo nuovo album. Una attività che sarebbe dovuta essere permessa dal regime di arresti domiciliari in cui si trovava. La Corte d’appello di Milano ha invece ritenuto queste azioni non legittime richiedendo il trasferimento in carcere. Questo fatto si inserisce in un quadro più ampio di criminalizzazione della figura di Baby Gang, che va ben al di là dei fatti per cui è in attesa di giudizio. Una criminalizzazione che riflette un più ampio tentativo di delegittimare degli artisti il cui peso sociale e culturale è mal sopportato.

Indipendente dalle vicende legate ai singoli rapper, ad avere un peso in questo meccanismo è l’operato perverso dei media mainstream e non solo. Tra trasmissioni televisive apertamente razziste e il pressappochismo dei giornali progressisti, una narrazione sbagliata circonda la figura del maranza. Ciò che non viene riconosciuto da nessuno è infatti la portata storica di questo fenomeno. L’empowerment attraverso la musica di comunità da sempre marginalizzate nel nostro Paese e il successo trasversale di una cultura giovanile osteggiata dal sistema dell’intrattenimento italiano meriterebbero ben altre attenzioni, rispetto a quelle che gli vengono dedicate da un’Italia vecchia e sempre più conservatrice. L’intento generalizzato è infatti quello di denigrare questo fenomeno, ironizzando sulla figura del maranza o criminalizzandola quando se ne ha la possibilità. Un intento che risponde alla paura di doversi confrontare con qualcosa di nuovo e dirompente. La polemiche tra Rovazzi e una parte di politica e giornalismo milanese è, in questo senso, un manifesto del rapporto che il nostro Paese ha con i giovani e con le persone non-bianche, due categorie con le quali la maggior parte degli italiani adulti non vuole in alcun modo avere a che fare.