Attualità | Dal numero
Non c’è pace nelle università americane
Dopo la pausa estiva, ricomincia la vita nei campus che l’anno scorso sono stati l’epicentro di proteste pro-Palestina. Manifestazioni che hanno evidenziato una contraddizione forse insanabile che riguarda il ruolo stesso dell’università negli Stati Uniti.
Ultima settimana di agosto. Per la vita nel campus, è come se fosse primavera. Tornano gli studenti, si allenta la calura, riaprono i caffè. La puzza di hot dog bruciato riempie gli spazi tra i banchetti delle associazioni studentesche, sempre a caccia di nuovi membri. E mentre professori reduci da mesi di vacanza si lamentano già di quanto sia dura la loro vita, l’università abbraccia le nuove matricole con i tipici proclami grandiosi. Viene detto loro che faranno la differenza, che cambieranno il mondo. Nel frattempo, per iniziare, possono godersi un’intera settimana di pizza gratis. Tra una sessione di orientamento e l’altra, la medicina migliore per sentirsi sulla cresta dell’onda.
Eppure, qualcosa non torna. C’e una nota lugubre. Una pesantezza di fondo che sgonfia l’effervescenza. Fuori dal “College Green” dell’Università della Pennsylvania – una distesa di verde all’ombra delle querce, che offre respiro dal traffico nevrastenico di Philadelphia, e sembra farti dimenticare che là fuori c’è una città di oltre 1 milione di abitanti – è comparso un cartello. «No trespassing», divieto di accesso. La formula legale che negli Stati Uniti autorizza i proprietari di un terreno a perseguire legalmente chi vi accede senza permesso. Roba che si vede tipicamente fuori da una villetta monofamiliare, o ai confini di una zona industriale. Ma che quasi mai marca uno spazio tipicamente concepito come pubblico, anche in un’università privata. È un’evidente contromossa dell’amministrazione universitaria nei confronti delle proteste pro-Palestina che hanno sconvolto la vita del campus durante l’ultimo anno accademico. Spedendo l’ateneo sotto i riflettori della cronaca nazionale e globale.
Restrizioni del genere non sono comparse solo a Penn: dagli atenei della Ivy League alle università statali, hanno infatti segnato il ritorno all’attività un po’ ovunque nel Paese. All’Università dell’Indiana hanno proibito ogni «attività espressiva» (sic) tra le 23 e le 6, facendo scattare immediatamente una denuncia da parte dell’Associazione per i diritti civili dello Stato. A Harvard sono state esplicitamente proibite le scritte sugli edifici o sul suolo del campus, non solo per mezzo di bombolette o pennarelli indelebili, ma pure di gessetti colorati. Il divieto ha prontamente scatenato la reazione di cinque professori, che hanno deciso di mostrare il proprio sdegno scrivendo cose come «Long chalk to freedom», oppure «Attenzione! Il gesso è pericoloso!» sull’asfalto del campus. Un’ora dopo, la polizia universitaria avrebbe lavato il corpo del delitto con plateali pompe idrauliche ad alta pressione, minimizzando l’intervento come una normale risposta a una violazione del regolamento. A Princeton, invece, hanno pubblicato una dettagliata guida per le proteste studentesche, che, tramite una serie di Faq, spiega agli aspiranti dissenzienti come organizzare una manifestazione legale: a chi chiedere il permesso, quali tipi di cartelli si possono esibire, e in quali zone del campus si può andare (risposta breve: quasi da nessuna parte). Un documento che è stato sbandierato come un segno di dialogo e apertura, ma la cui minuziosità tradisce un’evidente smania di controllo da parte dell’amministrazione universitaria verso qualsiasi interferenza.
Anche a New York, nel fulcro delle proteste, l’anno accademico è iniziato in maniera simile. Alla New York University, nel cuore di Manhattan, sono state impiegate apposite guardie giurate per bloccare l’accesso alle lunghe panchine del campus, già chiuse al pubblico con dei cancelli metallici. Lo scopo era impedire agli studenti di riunirsi; l’effetto è stato creare una scena surreale, diventata presto virale. Di quelle che si vedono in occasione di eventi dalla sicurezza blindata, e che è invece è rapidamente calata nella routine quotidiana di chi bazzica attorno al campus. Mentre alla Columbia University, poche decine di isolati più a nord, hanno proprio chiuso l’accesso, consentendo l’ingresso solo a chi ha un’affiliazione con l’università, o agli ospiti che si sono registrati in anticipo. E così, una dopo l’altra, le istantanee dai vari campus stanno consegnando al Paese l’immagine di una quotidianità accademica sempre più militarizzata, dove il raggio di azione di studenti e docenti viene costantemente limitato da nuove complicazioni burocratiche e minacce disciplinari.
Inevitabilmente, il ricordo torna all’anno accademico 2023-24. Un crescendo di proteste che, nelle università di tutto il Paese, si è concluso con gli accampamenti nel centro dei campus, accompagnato da richieste che, pur declinate in varie forme, sono state sostanzialmente simili da università a università: disinvestire da ogni attività collegata a Israele; ritirarsi dai progetti accademici condivisi con le università israeliane; pubblicare le informazioni circa il ventaglio di investimenti dell’ateneo. Pur senza direttamente dare assenso alle richieste, alcuni atenei – tra cui Brown University, nella Ivy League; Rutgers University, l’università statale del New Jersey; e Northwestern University, prestigiosa istituzione di Chicago – hanno instaurato un dialogo che ha permesso una risoluzione pacifica. Molti altri, invece, hanno reagito con brutalità, chiedendo l’intervento della polizia e arrestando i manifestanti che si rifiutavano di andarsene. Un’ondata di repressione che in molti hanno ritenuto eccessiva, e che ha ulteriormente fomentato la tensione tra le parti. Mentre in tutto il mondo andavano in onda le immagini della polizia in assetto antisommossa che si faceva strada nel campus della Columbia, qualcuno ha scomodato il paragone con le proteste per i dritti civili del 1968. Quelle che partirono dall’Università della California a Berkeley — ironicamente, proprio davanti allo stesso edificio dove sono stati arrestati i manifestanti la scorsa primavera— e si sparpagliarono rapidamente in tutta la nazione. Con una differenza non da poco, però: per le proteste dei mesi scorsi, il momento del romanticismo trasversale è ancora molto lontano. È stato tutto troppo controverso – ed è ancora tutto troppo in divenire – per permettere un’interpretazione condivisa degli eventi.
La sensazione diffusa è che la tregua portata dall’estate sia più che mai interlocutoria. Al punto che studenti e docenti, mentre provano ad assorbire l’ondata di restrizioni, si interrogano sulle molte domande che rimangono aperte. C’è l’aspetto pratico. Quanto durerà davvero la normalità, o presunta tale? Dietro all’illusione di ordine e disciplina, la tensione continua a ribollire. Alla Columbia ci sono già stati accenni di proteste. Negli altri campus sembra essere in corso una sorta di fase di studio in cui i manifestanti stanno cercando di riorganizzarsi alla luce del nuovo contesto disciplinare, e torneranno presto a farsi sentire. Insomma, se l’obiettivo principale della repressione era quello di scoraggiare ulteriori azioni di protesta da parte degli studenti, non sembra che sia stato raggiunto. Al limite, le nuove misure elimineranno certe zone grigie dei regolamenti, rendendo più facile per le università perseguire penalmente chi li infrange. E poi c’è l’aspetto più profondo, e ancora più delicato. Che va al di là di come uno la pensi sul conflitto tra Israele e Palestina. Cosa ci hanno mostrato questi mesi circa la natura stessa delle università americane, e il loro presunto ruolo di traino per la scena culturale nazionale e globale? Davvero istituzioni come Penn, Princeton, Harvard – ma pure l’Università dell’Indiana e quella della Florida – sono le roccaforti di pensiero critico, pluralismo di idee e avanguardia intellettuale che si propongono di essere?
La fiducia in questi proclami è ora più in crisi che mai. Le proteste hanno infatti aperto ulteriormente la frattura tra l’anima finanziaria e quella intellettuale degli atenei, mettendo in luce il paradossale modello economico su cui si basano le università statunitensi, soprattutto quelle private. Che da un lato vengono finanziate dalle faraoniche rette studentesche, in certi casi vicine ai 100 mila dollari all’anno. E dall’altro dipendono dalle donazioni – individuali, milionarie, e soprattutto revocabili – di alumni e finanziatori, che possono così guadagnare influenza sulla scena politica e culturale, oltre che sull’amministrazione dell’ateneo. E infatti, in molti hanno fatto notare come la decisione di reprimere le proteste sia stata quasi sempre una decisione di pochi dirigenti. Il cui operato risponde più agli interessi dei finanziatori che a quelli della comunità di docenti e studenti, per il cui beneficio l’università dovrebbe teoricamente operare. Si è visto bene a Penn, per esempio. Dove prima il rettore Liz Magill è stata costretta a dimettersi sulla base di motivazioni che ancora oggi non sono del tutto chiare, e poi è stato chiesto l’intervento della polizia di Philadelphia contro la volontà dell’amministrazione cittadina, su pressione del governatore Shapiro e di alcuni donatori che avevano minacciato di togliere il proprio supporto finanziario all’università se l’accampamento dei dimostranti non fosse stato smantellato. Oppure alla Nyu, dove persino alcuni professori sono stati soggetti a severi provvedimenti disciplinari per aver semplicemente espresso supporto alla causa dei manifestanti pro-Gaza. E così, gli eventi di questi mesi hanno messo in luce il lato corporate, molto aziendalista e poco intellettuale, del mondo accademico. Facendo capire come studenti e professori – ovvero coloro che per definizione contribuiscono maggiormente alla missione educativa e al prestigio intellettuale di un ateneo – giochino in fondo solo un ruolo marginale nella gestione strategica di queste istituzioni. Con buona pace dei luoghi comuni, spesso cavalcati ad arte dalla destra repubblicana e dalle ideologie anti-woke, secondo cui i loro capricci avrebbero potere di vita e di morte su tutto il resto.
L’onda lunga delle proteste, assieme all’incertezza circa gli eventi delle prossime settimane, ha però anche un risvolto più filosofico. Che rimanda a una questione annosa, tanto evidente quanto irrisolta, che da sempre scalda gli animi di chi gravita attorno ai campus. Cosa è davvero la libertà di espressione? Chi ha il potere di deciderne i limiti, e perché? In un mondo culturalmente ricco e variegato come quello delle università americane, trovare un equilibrio che assicuri a tutti lo stesso grado di libertà e protezione è un’impresa ardua. E infatti, su questo argomento gli atenei hanno storicamente avuto approcci molto diversi. Da un lato quello più progressista, che enfatizza la difesa delle sensibilità individuali, anche a costo di prestare il fianco alle accuse di iper-protezione degli studenti. Dall’altro quello più reazionario, che enfatizza l’importanza del dibattito, e a volte pure dello scontro, come mezzo di crescita intellettuale, anche a costo di creare situazioni individualmente non confortevoli. Proprio rispetto a questa contrapposizione l’ondata di proteste ha messo in luce due dinamiche opposte tra loro. Ha esacerbato lo scontro ideologico, portandolo a un curioso ribaltamento. Molti conservatori, quelli ossessionati dalla dittatura del politicamente corretto, si sono trovati a chiedere misure restrittive verso il diritto di manifestare certe posizioni politiche; e molti progressisti a invocare la sacralità della libertà di espressione, anche a costo di arrecare offesa a chi la pensa diversamente. D’altra parte, ha fatto capire quanto sia importante difendere l’inviolabilità dell’università – e dei suoi spazi fisici e culturali – come un terreno di sperimentazione e confronto. Un luogo dove, a prescindere dagli eventi esterni, le idee collidono, si mischiano, e soprattutto si arricchiscono. E proprio attorno alla difesa di questo ideale comune sembrano esserci le premesse più solide per rinnovare la comunione di intenti tra chi, seppur in ruoli diversi, nei campus vive e lavora. Gettando le basi per una visione condivisa che vada al di là delle specifiche identità politiche e culturali, e permetta di salvaguardare la curiosità intellettuale e la contaminazione di idee che della vita universitaria sono un pilastro essenziale. Anche quando le panchine restano transennate e i prati chiusi al pubblico.
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