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L’attivismo non è un pranzo di gala o una Storia su Instagram
Dopo che l'immagine "All Eyes on Rafah" è stata condivisa quasi 50 milioni di volte si è riaccesa la discussione su cosa significhi, e se abbia senso, la politica sui social. Ne abbiamo discusso con gli attivisti dei Giovani Palestinesi d'Italia.
Una settimana fa è diventata virale sui social un’immagine, generata dall’intelligenza artificiale, che invitava a tenere gli occhi puntati su Rafah, a pochi giorni dal massacro di civili palestinesi causato dall’esercito israeliano. Questo trend ha generato parecchie discussioni tra attivisti, giornalisti e influencer rispetto al ruolo che i social svolgono nel manifestare il proprio sostegno a una causa politica. Non si tratta di un dibattito nuovo, ma la causa palestinese, intesa come lotta di liberazione i cui confini si allargano oltre l’attuale crisi umanitaria di Gaza, ci interroga su cosa significhi oggi schierarsi politicamente. La richiesta dei movimenti decoloniali in Occidente non si limita a quella di solidarietà: è oggi convinzione di molti che le persone bianche, e più in generale coloro che vivono in una condizione di privilegio, debbano impegnarsi in un processo di decostruzione del proprio bagaglio culturale, in quanto costruito su basi razziste e colonialiste.
Io ho scelto di condividere quell’immagine sul mio profilo Instagram, convinto che schierarsi, anche se solo nella sfera virtuale, avesse di per sé una sua validità, ma altrettanto consapevole dell’insufficienza di quel gesto se slegato da un processo personale di decostruzione e da una partecipazione attiva alle iniziative lanciate dalla comunità palestinese. Preoccupato che questi pensieri, se non verbalizzati e messi in forma di dialogo, sarebbero diventati l’ultima aggiunta alla già lunghissima lista delle discussioni alle quali ci siamo appassionati per un giorno soltanto, sono andato all’Università Statale di Milano, dove tutt’ora è in corso l’accampamento degli studenti a sostegno della lotta palestinese. Nell’aula 211, luogo cardine dell’attivismo studentesco delle ultime settimane, ho incontrato Laila, Youssef, Jawan e Soukaina, tutti membri dell’associazione Giovani Palestinesi d’Italia. Né è venuto fuori un lungo dialogo che, lungi dall’aver risolto le questioni esistenziali di cui prima, ha confermato il detto secondo cui la migliore delle conversazioni non è quella che ti porta a certezze ma ti accompagna verso nuove domande.
Seduti sulle scomodissime sedie della Statale, Laila inizia raccontandomi cosa ci sia, secondo lei, all’origine dello smarrimento di molte persone bianche di sinistra in Italia in merito alla guerra a Gaza. «Con il 7 ottobre si è imposta una spaccatura storica, quella tra i movimenti palestinesi e gran parte della sinistra bianca. È stato un passaggio che ha avuto a che fare con l’impossibilità che ha la causa palestinese di essere feticizzata. Il ruolo della donna e della religione nella cultura araba e quello di Hamas nella guerra a Gaza hanno impedito alla sinistra italiana di intestarsi il movimento. Si è trattato di un passaggio inedito in Italia, dove le riflessioni sulla decolonizzazione sono assai più indietro rispetto ad altri Paesi occidentali. Tutto ciò ci ha permesso di essere radicali nelle nostre riflessioni senza avere bisogno di “allargare il campo” ad altre sensibilità». A questo punto interviene Youssef, che sottolinea come questa rottura sia figlia della diffusa islamofobia, che guida gran parte del pensiero occidentale: «Il 7 ottobre ha polarizzato e riaperto la frattura tra Occidente e Oriente. L’idea occidentale è che il mondo islamico, ancora primitivo e incivilizzato, sia da salvare da se stesso. Per gli occidentali è quindi difficile accettare che l’Islam possa essere un alleato nella lotta decoloniale».
Fatte queste riflessioni preliminari, i ragazzi mi raccontano quale sia stato l’effettivo andamento delle iniziative lanciate dalla comunità palestinese in questi mesi di guerra. «In una prima fase sono state soprattutto le comunità nord-africane a garantire una ampia partecipazione alle manifestazioni», mi dice Laila. «A loro non era necessario spiegare perché fosse giusto appoggiare la causa palestinese. Col passare del tempo, però, l’adesione è fisiologicamente diminuita. È stata una fase di calo che ha visto una sua ripresa solo con la protesta nelle università. Si è trattata di una richiesta esplicita proveniente dalla Palestina, quella di spostare il conflitto sul piano della complicità delle istituzioni occidentali con Israele. Non è stato semplice perché, anche qui, abbiamo dovuto fare i conti con i movimenti italiani che non capivano perché non potevano essere loro a capo di questa battaglia. Con tutte le difficoltà del caso, abbiamo visto una buona partecipazione da parte degli studenti».
Arrivati a questo punto, giungiamo nel vivo della conversazione. Come giudicano loro, giovani palestinesi impegnati in prima fila nel movimento, il ruolo che i social hanno avuto in questi mesi? Incomincia Laila: «Un aspetto positivo è che i social network hanno dato la possibilità ai palestinesi di raccontarsi, senza il filtro del giornalismo occidentale. È una dinamica che ha riguardato soprattutto i giovani, che, per fortuna, non si informano sui giornali mainstream. Anche i giornalisti palestinesi di maggior successo, infatti, non ricevono legittimità dal giornalismo ufficiale, perché considerati “di parte”. Il lato negativo dei social sta invece nell’uso disfunzionale che molti giovani fanno del mezzo». Jawan entra nello specifico di questi comportamenti: «L’idea che condividere un’immagine ti assolva dalle tue responsabilità è tanto diffusa quanto pericolosa. Se quel gesto ha l’unica conseguenza di annullare il senso colpa di chi lo compie, ottiene l’effetto di allontanare la persona stessa da un impegno reale, in quanto si sente di aver già fatto il suo». Yussef è, a questo riguardo, molto più positivo: «Ci sono vari livelli secondo me. La diffusione di molti contenuti, anche se spesso limitati perché decontestualizzati, ha permesso a tantissimi di solidarizzare con la causa palestinese. È chiaro, poi, che per avvicinarsi all’attivismo c’è bisogno di altro».
Introduco quindi un aspetto che mi è parso evidente in occasione delle polemiche relative alla viralità dell’immagine “All Eyes On Rafah”. La mia percezione è che molti attivisti abbiano, anche in buona fede, finito per colpevolizzare le persone che hanno condiviso quel post. Il mio dubbio è se questo atteggiamento faccia il bene della causa o se finisca per allontanare coloro che, con la pubblicazione di quella immagine, stavano in realtà compiendo un passo, certamente piccolo, in direzione della stessa. Più in generale, il mio interrogativo riguarda il concetto di colpa e responsabilità. È essenziale il senso di colpa per avviare un processo di decostruzione o è, invece, possibile svolgerlo attraverso una presa di coscienza, una assunzione di responsabilità? A rispondere per prima è Leila, con un’ opinione molto netta: «Per me il primo passo di un processo di decostruzione è sempre il senso di colpa. Si tratta di un passaggio necessario ma non sufficiente. È il pensiero primario da cui poi deve nascere un’azione. Credo sia giusto che chi ha condiviso solo l’immagine su Rafah dopo otto mesi di guerra abbia provato del senso di colpa rispetto all’idea di non aver fatto abbastanza. Io non condanno quella immagine di per sé, dico solo che da lì è giusto fare un passo in avanti ed impegnarsi veramente». Yussef interviene in merito, aggiungendo una riflessione sul ruolo che in questo frangente devono avere i Giovani Palestinesi: «La nostra causa non credo debba “mainstreamizzarsi”. Il ruolo di un movimento radicale è quello di portare a sé le persone a costo di alienarsi il grande pubblico che non riesce a superare lo stadio del senso di colpa e ad avviare un reale processo di decostruzione».
Aggiungo quindi alla conversazione un elemento nuovo. Molti hanno paragonato la viralità dell’immagine su Rafah ai post quadrati di colore nero condivisi durante il picco del movimento Black Lives Matter nell’estate del 2020. Non voglio trovare analogie e differenze tra i due fenomeni ma porre una questione: la popolarità di Black Lives Matter ha avuto degli effetti positivi, reali, sulla vita delle persone nere in America. Il fatto che multinazionali e influencer di fama globale abbiano sostenuto quel movimento, magari superficialmente o con secondi fini, ha portato all’imposizione di certe istanze nell’agenda pubblica. Ciò ha avuto delle conseguenze, ancora insufficienti ma comunque non trascurabili, in termini di miglioramento delle condizioni di vita degli afroamericani. Siamo qui di fronte alla riproposizione del più antico conflitto nella storia della sinistra, quello tra massimalisti e riformisti. Alla luce di questa riflessione, chiedo ai ragazzi se siano sicuri che questo tipo di sostegno, che potremmo definire pigro, non sia in qualche modo d’aiuto alla causa palestinese. «Credo che su Black Lives Matter sia avvenuto un meccanismo di sussunzione di alcune battaglie del movimento da parte del sistema liberale», mi dice Soukaina. «L’ obiettivo nostro però non è entrare in un dibattito pubblico da cui siamo esclusi, ma di cambiare radicalmente i sistemi che creano questo dibattito».
Uno spunto interessante lo aggiunge poi Leila: «Nelle ultime settimane è avvenuto un fatto che racconta molto della natura di questi meccanismi di sussunzione o pacificazione di movimenti radicali, se vogliamo chiamarli così. Da mesi chiediamo alle università italiane di interrompere i rapporti con le istituzioni israeliane. La Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, ha invece proposto la creazione di un numero di borse di studio per studenti palestinesi e di una sorta di progetto Erasmus in Palestina. Questo tipo di risposta è sempre sulla falsa riga della vittimizazzione dei palestinesi, visti come dalle persone “solo” da aiutare e non da prendere sul serio in merito alle istanze che portano avanti. C’è tanto pensiero cristiano in tutto questo».
Dopo più di un’ora di chiacchierata lascio Laila, Youssef, Jawan e Soukaina alla loro assemblea che è in procinto di iniziare. Mentre attraverso i chiostri della Statale e ripenso alla discussione appena finita, mi viene in mente un pensiero tanto banale quanto ineludibile: sarebbe stato possibile fare questa discussione sui social?