Industry | Moda

Non ci sono più i resi di una volta

Sappiamo che inquinano moltissimo e rappresentano un danno economico per le aziende: la soluzione sta in un approccio al consumo completamente diverso da quello attuale.

di Lorenzo De Angelis

Nel 2019, Amanda Mull pubblicava sull’Atlantic un pezzo intitolato Stop Believing in Free Shipping. Partendo dalla vicenda di una piccola imprenditrice di Etsy che, in seguito all’introduzione di un nuovo algoritmo sulla piattaforma, si era trovata svantaggiata rispetto a chi poteva permettersi di offrire la spedizione gratuita, l’articolo metteva in luce le difficoltà degli e-commerce nello stare al passo con le richieste dei consumatori. Alla radice del problema c’era – e c’è tuttora – l’esperienza di shopping online fornita da Amazon: la possibilità di ricevere gratuitamente e in tempi sempre più rapidi i propri acquisti a casa, provarli e poi eventualmente restituirli senza pagare nulla si è presto consolidata come standard, deformando le aspettative  dei clienti e obbligando anche gli altri rivenditori a offrire gratuitamente servizi che, senza la struttura e la capacità distributiva del colosso di Jeff Bezos, comportano costi spesso insostenibili (ne avevamo scritto qui). Facciamo un salto in avanti di quasi cinque anni – durante i quali una pandemia e infiniti lockdown hanno ulteriormente aumentato le nostre aspettative rispetto agli acquisti da casa – e arriviamo a oggi: The Cut pubblica un articolo, intitolato The Return Grift Is Over, che spiega come vari e-commerce, tra cui Asos e Ssense, abbiano iniziato a mettere al bando i clienti troppo avvezzi ai resi.

Si legge nell’articolo che nel corso del 2023, anno in cui il valore della merce rimandata indietro dopo l’acquisto ha raggiunto 743 miliardi di dollari, «i rivenditori online, molti dei quali avevo incluso i resi gratuiti nella propria strategia di business, sembrano aver finalmente raggiunto il limite». Di fronte allo sconcerto dei clienti bannati, che per anni hanno potuto comprare e restituire indisturbatamente enormi quantità di capi (nell’articolo si parla di resi dal valore di centinaia e migliaia di dollari), Asos e Ssense hanno motivato la scelta di disattivare in via definitiva i loro profili come conseguenza di acquisti e resi avvenuti a ritmi che considerano «insoliti e irragionevoli». Sembra quindi che questi marchi – che comunque includono nelle proprie politiche la possibilità di fare un reso gratuito per ogni ordine, anche se non in tutti i Paesi in cui spediscono – facciano appello al buon senso dei consumatori. Ma come si comportano quegli stessi consumatori? Alec Leach, autore di The World is on Fire but We’re Still Buying Shoes, uno dei libri recenti più interessanti sul tema del nostro rapporto con i vestiti, nella sua newsletter ha ribattezzato questa pratica “showrooming”: un po’ come degli influencer presso noi stessi, ci siamo tutti abituati a ordinare, provare, magari scattare delle foto, restituire con l’etichetta di reso che si trova nel pacco. Non è un caso che su TikTok sia facile imbattersi nei video #KeepOrReturn, in cui gli utenti provano ciò che hanno acquistato online – nella maggior parte dei casi assurde quantità di capi fast fashion – e chiedono al loro pubblico di aiutarli a capire se tenerlo o mandarlo indietro.

Se da una parte è quindi chiaro che questo modello non può essere economicamente sostenibile ma soprattutto comporta gravi ripercussioni sull’ambiente, dall’altra, i marchi – piccoli, medi o grandi – si trovano costretti ad allinearsi alle aspettative dei potenziali consumatori. Per tutti questi motivi, dove il reso è gratuito, il consumatore non si dimostra particolarmente sensibile o dotato di «buon senso» e il numero di resi continua a crescere sensibilmente ogni anno. Un case study sull’argomento, scritto da Malique Morris per Business of Fashion, rivela che il problema di base è che, come è facile intuire, le consegne e i resi non sono mai effettivamente gratuiti, se non per i sempre più viziati clienti: in questo contesto, “gratuito” è sempre stato un aggettivo improprio, perché «i rivenditori hanno sempre dovuto pagare per le spedizioni, così come per le importanti spese necessarie a passare in rassegna i resi per capire quali articoli potessero essere venduti e cosa fare con quelli restanti. Molte compagnie hanno brontolato rispetto ai costi e ai grattacapi che derivano dai resi gratuiti, ma sentivano di avere le mani legate». A complicare ulteriormente le cose i dati riportano che, dopo l’esplosione dello shopping online nei mesi di lockdown, quando in tanti hanno sentito l’esigenza di tornare a fare acquisti in negozi fisici  e la quantità di ordini online è cominciata a scemare, il numero di resi è, al contrario, aumentato, così come sono notevolmente aumentate le spese per processare quegli stessi resi, prima come conseguenza delle pressioni nella logistica dovute alla pandemia, che ha portato all’aumento dei costi per le spedizioni, e poi a causa dell’inflazione.

Di conseguenza, sempre più aziende si sono trovate costrette ad agire per arginare queste spese: tra il 2022 e il 2023, Zara ha iniziato a far pagare ai clienti britannici e americani una piccola somma – rispettivamente 2 sterline e 4 dollari – per il reso tramite servizio postale, seguita da H&M che, lo scorso giugno, ha fatto lo stesso per i clienti non iscritti al programma “H&M Club”. Sia Zara che H&M hanno però mantenuto gratuiti i resi fatti in negozio (lo stesso vale similmente in entrambi i casi in Italia). Trovandosi con il reso a proprio carico, il cliente è sicuramente portato ad acquistare con più consapevolezza e il numero di resi diminuisce ma, come sottolinea Morris, la soluzione del problema non è così lineare. Infatti, molti tra i marchi che hanno deciso di non garantire più i resi gratuiti, intimoriti dalla reazione dei consumatori, si trovano ad ogni modo costretti a compensare la sospensione di questo servizio con nuove strategie per mantenere o attrarre i clienti: insieme a chi incentiva i i resi in negozio o sceglie di offrire ai clienti insoddisfatti un credito da usare sul proprio sito (anziché un effettivo rimborso), c’è chi punta su una comunicazione efficace unita a un’interessante produzione editoriale (Ssense è, in questo senso, l’esempio più riuscito) e c’è anche chi, con una spinta verso un’idea di economia circolare, sceglie di affidarsi a start-up come Happy Returns o chi, come nel caso di Ganni e Uniqlo, offre, in caso di problemi di taglie, di intervenire con modifiche sartoriali sui capi acquistati.

Al di là delle perdite economiche per le aziende, però, quello dei resi è un problema soprattutto per via l’impatto che ha sull’ambiente ed è su questo che bisognerebbe insistere quando si parla di «buon senso» dei consumatori. All’interno di un’industria, come quella della moda e dell’abbigliamento, che è tra le più inquinanti del pianeta, il danno ambientale che una quantità così alta di resi causa non si limita solo alle emissioni emesse durante le spedizioni o nei rifiuti prodotti dagli imballaggi (che con un’astuta operazione di greenwashing sono passati dalla plastica alla carta, proprio come le fragili cannucce di carta che si sciolgono ad ogni sorso e ci causano tanta frustrazione). Come riportato dal Guardian, infatti, sono rarissimi i casi in cui i capi restituiti vengono rimessi in commercio: molto più spesso tonnellate e tonnellate di abiti nuovi finiscono nelle discariche o vengono bruciati.

Qual è allora la soluzione? Come spesso succede quando si parla di sostenibilità, la responsabilità è di tutti. Nella sua newsletter, Leach definisce quello relativo ai resi un «problema olistico» che si interseca ad altre questioni come la body inclusivity e la trasparenza delle aziende. Perché nelle immagini degli e-commerce i capi vengono mostrati quasi esclusivamente da modelle e modelli i cui corpi sono spesso molto diversi da quelli delle persone comuni? E perché le descrizioni dei prodotti spesso non indicano con precisione le taglie, le misure, la vestibilità, i materiali e i colori? Si chiede Leach, suggerendo che è anche per questi motivi che spesso ci si ritrova tra le mani un capo che non è come vorremmo. Se quindi se spetta a noi consumatori trovare il tempo per ri-educarci, sensibilizzarci e cambiare le nostre abitudini (soprattutto quando sono proprio le nostre abitudine a influenzare il mercato), il nostro impegno dovrebbe essere condiviso – qui, forse, sta la soluzione – anche dalle aziende che, anche solo nel loro interesse, dovrebbero mostrare dalla loro parte un effettivo impegno nel costruire modelli alternativi che funzionino meglio, per i clienti e per il pianeta. Altrimenti, così come per le cannucce, rimarremo con una forte senso di frustrazione con la sensazione che nulla intorno a noi stia effettivamente cambiando.