Un film che, per la redazione di Cahiers, è meglio anche di Una battaglia dopo l'altra di Paul Thomas Anderson, secondo in classifica.
Si potrebbe cominciare da qualsiasi parte, quando si parla di Pomeriggi di solitudine (Tardes de Soledad), ma il punto giusto è forse un quadro, non un film. Tra il 1790 e il 1795 Francisco Goya dipinge uno dei suoi autoritratti più enigmatici, Autorretrato ante el caballete: lo vediamo nel suo studio, in un controluce che ne avvolge la figura in un’aura elegiaca, sospesa. Sta dipingendo, ma il vero soggetto del quadro è lo sguardo: ci guarda mentre lavora, e presumibilmente guardava se stesso in uno specchio per ritrarsi, come a ribadire che l’atto di rappresentare implica sempre lo sguardo dell’altro.
C’è un dettaglio, in quel dipinto, che oggi appare decisivo per parlare del film di Serra. Goya indossa una giacca corta da torero, una chaquetilla con ricami rossi lungo i fianchi, un capo estraneo all’iconografia rassicurante dell’artista borghese. È come se dicesse: il pittore è esposto come il matador, il suo mestiere non è meno pericoloso, il suo destino non è meno soggetto alla fortuna, alla grazia, all’errore. La pittura, come la corrida, è un confronto con qualcosa che può sfuggire di mano, che può travolgere. L’artista è un professionista del rischio.
Con Pomeriggi di solitudine, Albert Serra indossa idealmente la stessa giacca. Il suo primo documentario (dopo una carriera che va da Honor de cavalleria a Història de la meva mort, da La mort de Louis XIV a Pacifiction) prende di petto un tema che oggi sembra quasi impossibile sfiorare senza generare un putiferio: la corrida, il toro, il sangue. Serra sceglie di seguire il matador peruviano Andrés Roca Rey (Lima, 1996) attraverso quattordici corride, condensate in poco più di due ore. Lo fa fin dall’inizio sapendo che verrà accusato di celebrare una pratica considerata (a debonde) una barbarie. Prima ancora della proiezione al Festival di San Sebastián (il 23 settembre del 2024, distribuito poi in Spagna e all’estero nel marzo 2025), il partito animalista PACMA chiese il ritiro del film, accusandolo di “umanizzare una pratica violenta” e di diffondere un’immagine eticamente inaccettabile. Il direttore del festival, José Luis Rebordinos, rispose invitando a vedere il film prima di giudicarlo. È un dettaglio significativo: qui non si tratta di un’idea astratta della corrida, ma di cosa significhi guardarla davvero, con una macchina da presa che non risparmia nulla allo sguardo. Sono proteste che al tempo dovette affrontare anche Pedro Almodóvar quando diresse Hable con ella (2002), che pur lateralmente comprendeva sequenze di vere corride. Eppure, anche senza attenuare il disgusto (ad esempio di chi scrive) verso questo crudele spettacolo, è difficile non osservare con riluttante ammirazione “l’arte” di Roca Rey, per un individuo che costruisce la sua intera carriera che implica l’onnipresente possibilità della morte, modellando i propri gesti e il proprio corpo su una strana ambiguità: da un lato la totale destrezza e praticità che è nella realtà di un’azione che dispensa morte e che può risultare per lui fatale, dall’altra l’incredibile stilizzazione dei movimenti, la ripetizione dei gesti, la trasfigurazione dell’individuo in “persona”, come nel teatro nō giapponese. Nō, che per altro vuol dire proprio “abilità”.
Il giorno della première al Festival di San Sebastián la sala del Kursaal era gremita e alla fine il film vinse la Concha de Oro, il premio principale del festival, superando i film in concorso di autori quali Mike Leigh, Edward Berger e Joshua Oppenheimer. Fuori dalla sala, intanto, impazzava la protesta. Attorno al film si addensa una costellazione di reazioni opposte: entusiasmo e repulsione, ammirazione estetica e rifiuto morale, curiosità e disgusto. È il terreno su cui Serra lavora da sempre, la zona grigia in cui l’arte smette di essere rassicurante e dove il pubblico è costretto a prendere posizione senza avere l’appoggio di una cornice interpretativa accomodante.
Contro il documentario contemporaneo
Per capire un po’ di più Pomeriggi di solitudine bisogna partire dalla maniera in cui è stato girato. Serra usa tre camere digitali Black Magic Pocket Cinema 6K Pro, non guarda nell’obiettivo durante le riprese, lascia agli operatori un margine di libertà quasi assoluto. È la stessa metodologia dei suoi film di finzione: un’idea di cinema come dispositivo che cattura l’imprevisto, più che aderire a uno storyboard. La realizzazione del film ha occupato cinque anni di lavoro: tre per girare, due per montare una quantità enorme di materiale. Serra ama il caos controllato, lo smarrimento calcolato, quel momento in cui (come ha raccontato in un’intervista) il regista stesso si sorprende di ciò che vede sullo schermo. È esattamente il contrario del profluvio di documentari con i quali piattaforme come Netflix hanno imboccato il pubblico nell’ultimo torno d’anni: didascalici, rassicuranti, capaci di mettere lo spettatore in una zona di comfort totale a dispetto anche dei temi talvolta atroci che questi prodotti contengono. Un formato che si consuma con la stessa facilità con cui si dimentica.
Per Serra, confrontarsi con il documentario vuol dire fare del film una vera esperienza, qualcosa che eccede il consumo informativo e che mira invece a una presa di coscienza individuale. In tale impianto radicalmente anti-didattico nessuna voce narrante viene in nostro soccorso (anche il miglior Herzog sa che il commento è fondamentale per costruire i suoi documentari), nessun cartello, nessuna intervista, nessun contesto storico, giuridico o politico. Serra rifiuta di occupare il posto dell’esperto, dell’intellettuale che traduce le immagini in messaggio. L’unica cosa che gli interessa, come ripete da anni, è ciò che l’immagine può dire da sola. La conseguenza è che lo spettatore non viene mai guidato: non gli viene detto cosa pensare, non gli viene spiegato che cosa sia la corrida, non gli viene proposto un giudizio. In un’epoca in cui ogni documentario sembra affannarsi per comunicare la propria “posizione”, questo rifiuto ha un effetto quasi scandaloso. È proprio questo rifiuto, però, che restituisce al pubblico la responsabilità del proprio sguardo.
Un eterno presente
A tenere insieme il film c’è, come spesso nel lavoro di Serra, una struttura di ripetizioni e variazioni che si avvicina più al rituale che al racconto. Le corride si susseguono una dopo l’altra; le città cambiano (Madrid, Siviglia, Bilbao) ma la logica rimane la stessa: preparazione, vestizione, arena, sangue, stanchezza, spostamento, di nuovo preparazione. Non c’è un climax narrativo, non c’è la costruzione di un “arco” di personaggio, non c’è un prima e un dopo: c’è un eterno presente liturgico, fatto di gesti che si ripetono fino a diventare insondabili. Serra lavora proprio su questa ripetizione, che non è banalmente ridondanza, ma un modo per farci abitare il rito dall’interno, lasciandoci soli al cospetto della sua atavica violenza e crudele bellezza.
Un capitolo a parte merita il suono. È una delle ragioni per cui Pomeriggi di solitudine è così difficile da guardare e ancora più difficile da dimenticare. Si sentono i respiri dei tori, il ritmo accelerato delle narici dopo la carica, il suono dei passi sulla sabbia, il fruscio dei tessuti, il mormorio dei membri della cuadrilla che circondano il matador con un flusso continuo di frasi di sostegno, complimenti, superstizioni, la ripetizione oscena della tradizione. La dimensione a tratti quasi mistica della musica, che alterna le composizioni di Marc Verdaguer a inserti di Saint-Saëns e persino Embryonic Journey dei Jefferson Airplane, non lenisce la brutale fisicità di ciò che vediamo, ma la incornicia con un’ironia sottile: come se Serra ricordasse che anche il romanticismo, qui, è solo un altro livello di rappresentazione.
Guardare il film significa confrontarsi con immagini di crudeltà estrema. I cavalli colpiti dai corni del toro, la carne lacerata, il sangue che scende lungo i fianchi degli animali, le banderillas conficcate come piccole bandiere nella schiena del toro, l’estocada finale, il crollo del corpo, la lingua esausta che esce dal muso, gli occhi che lentamente si spengono. Si prova continuamente il desiderio di distogliere lo sguardo, di interrompere la visione. Il film non concede questa possibilità, proprio perché non introduce mediazioni morali: la domanda su cosa sia giusto o sbagliato ricade interamente su chi guarda, e lì rimane, anche dopo la fine.
Sarebbe ingenuo leggere Pomeriggi di solitudine come un film “a favore” della corrida. È un equivoco comprensibile, ma fortemente limitante. Serra è troppo interessato alla complessità per scrivere un manifesto, e troppo consapevole del potere delle immagini per trasformarle in propaganda. Quello che gli interessa, semmai, è l’ambivalenza: la coesistenza, nello stesso gesto, di qualcosa di atroce e di qualcosa di ipnoticamente bello. Lo spettacolo è insopportabile e insieme magnetico; la violenza è ripugnante e, nella forma che assume, irresistibilmente coreografica. Serra non prova a sciogliere questa contraddizione. La mantiene aperta. È uno dei tratti che fanno di questo film non solo un dispositivo estetico forte, ma anche un’esperienza etica scomoda: qui non ci viene concesso il conforto della coerenza.
Los cojones
Un altro elemento centrale è la rappresentazione del maschile. Nel film non compaiono donne. Non è una scelta arbitraria, è la restituzione di un dato di realtà: l’universo della corrida, nella forma in cui Serra lo filma, è un mondo completamente maschile. Non solo nel senso letterale dei corpi presenti sullo schermo, ma nel modo in cui il potere, il desiderio, il linguaggio e la violenza si organizzano. La cuadrilla che circonda Roca Rey non è solo una squadra di lavoro: è un cerchio di adoratori. Si parla continuamente del suo coraggio in termini anatomici, “los cojones” (quelli del toro crudelmente esibiti, quelli del torero, ben visibili nei tessuti aderenti del costume), si commenta il suo fisico, la sua resistenza, la sua “potenza”. La dimensione omoerotica, che alcuni commentatori hanno colto con una certa sorpresa, emerge proprio da questo sguardo collettivo sul corpo del matador: un corpo che viene vestito, denudato, curato, manipolato, sostenuto, incensato, ferito, in una retorica che gronda cattolicesimo.
Il traje de luces, con le sue calze tirate fino al petto e i pantaloni strettissimi che vengono sistemati come un corsetto, è un costume che stringe, modella. Serra indugia su tutti questi dettagli: la mano che aggiusta il tessuto, il piede che entra nella scarpa, il sudore che si accumula, lo sguardo fisso nello specchio prima di uscire verso l’arena. È una costruzione di virilità che rivela, proprio nel momento in cui pretende di essere invincibile, la propria fragilità. Nel modo in cui il film lo mostra, il maschile appare come una macchina che ha bisogno di conferme continue, sempre sul punto di crollare non appena il rito dovesse infrangersi.
In questo contesto, la figura di Roca Rey non è quella dell’eroe, ma del sacrificato. Non c’è psicologia esplicita, non c’è introspezione dichiarata (Roca Rey parla poco, quasi niente – e tuttavia, a poco a poco, emerge un’impressione persistente di solitudine). È sempre circondato da uomini, ma non è mai veramente con loro. Non appena emerge vittorioso dall’arena, immediatamente questo collettivo di mascolinità tossica lo traduce nell’abitacolo di un van claustrofobico, come se fosse sottovuoto, ricordando per certi versi il protagonista di Cosmopolis (2012) di Cronenberg tratto da DeLillo. In quello spazio saturato di parole, gesti e rassicurazioni si percepisce più che in tutto il resto del film l’assoluta mancanza di senso di queste performance mortali. Il titolo del film, Pomeriggi di solitudine, sembra alludere proprio a questa dimensione: non la solitudine romantica dell’eroe tragico, ma quella di un individuo intrappolato in un ruolo che non può abbandonare, continuamente ripetuto da città a città, da pomeriggio a pomeriggio.
Un film ostile
La fotografia di Artur Tort, con le sue inquadrature strette e i lunghi teleobiettivi che isolano dettagli (un muso di toro che ansima, zoccoli che scavano nella sabbia, il volto contratto del matador, il fianco di un cavallo colpito) va oltre il cinema e diventa pittura. Attenzione: non la retorica del tableau vivant impiegata da molti registi lungo tutta la storia del cinema, ma la determinazione a usare il medium del cinema come fosse colore a olio. Diverse volte, guardando il film, sembra di affondare nella tradizione pittorica spagnola: la gravità di Velázquez, la disperazione visionaria di Goya, l’attenzione quasi ossessiva per la materia, per i corpi, per la luce che li attraversa.
Il film di Serra merita davvero il primo posto che Cahiers du cinéma gli ha assegnato tra i migliori del 2025? L’interrogativo trova una risposta meno ovvia del previsto. Se per “meritare” intendiamo un’opera che tranquillizza, conferma idee, offre una prospettiva confortante, allora no: Pomeriggi di solitudine non lo merita, e non vuole meritarlo.
Se invece pensiamo al merito come capacità di spingersi in un territorio che il cinema contemporaneo, salvo rare eccezioni, tende a evitare (un territorio di rischio estetico, morale, politico), allora la scelta dei Cahiers appare non solo condivisibile, ma quasi inevitabile. In un’epoca in cui la parola “contenuto” ha progressivamente sostituito il termine “opera”, Serra realizza un film che rifiuta di essere contenuto: non serve a spiegare, a educare, a convincere, a rassicurare. Serve a mostrarci qualcosa che preferiremmo non vedere, e a farlo con una forza iconica che ha pochi paragoni recenti.
Per chi, come me, considera la sofferenza animale un tema non negoziabile, l’esperienza del film è contraddittoria in modo doloroso. Non c’è un modo pulito per riconciliare la consapevolezza della crudeltà con l’ammirazione per la potenza formale del film. Forse, però, è proprio lì che Pomeriggi di solitudine trova il suo senso più profondo: nel rifiuto di semplificare, di ridurre una pratica antica e per molti inaccettabile a slogan pro o contro. Serra ci costringe a sostare in quella zona in cui non sappiamo bene come definirci, in cui il linguaggio politico non basta, in cui la nostra stessa indignazione va misurata con il bisogno di capire da dove viene, cosa guarda, cosa rimuove.
Tornando a Goya, al suo autoritratto con la giacca da torero, l’impressione è che tanto il pittore quanto Serra abbiano scelto di mettersi in scena in prossimità di un pericolo reale. Per Goya, il rischio era la pittura stessa, il confronto con la realtà della violenza; quella dei disastri della guerra, della follia, della superstizione. Per Serra, il rischio è affidare alla pura forza delle immagini un tema che la nostra epoca vorrebbe, se non censurare, almeno neutralizzare dietro discorsi ordinati. In entrambi i casi, il gesto è lo stesso: esporsi al toro, sapendo che potrebbe andare molto male. È forse questa, in ultima analisi, la ragione per cui Pomeriggi di solitudine non è solo un film importante, ma un’opera destinata a restare al di là della cronaca festivaliera. Non perché risolve qualcosa, non perché dice l’ultima parola su un dibattito, ma perché ha il coraggio, rarissimo oggi, di rimettere la responsabilità del vedere nelle mani dello spettatore. Ci concede la libertà, e insieme il peso, di decidere cosa pensare di ciò che vediamo.
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