Stili di vita | Dal numero

Tentativi ed errori di una coppia aperta di oggi

Il poliamore o la non-monogamia etica sono pratiche di relazioni sempre più diffuse. Cosa ci dicono della società, e del futuro delle relazioni? Un racconto tra felicità, libertà e qualche dubbio.

Come “quarantenne”, “malattia cronica” e “MDMA”, la prima volta che ho sentito la parola “poliamore” ero certo che non ne avrei mai avuto bisogno per parlare di me. Lo trovavo un termine remoto e urticante, frutto di una moda da americani o dell’idea, anch’essa da americani, che la possibilità di scegliere fra molte alternative normate ed etichettate sia un surrogato della libertà. Come per “quarantenne”, “malattia cronica” e “MDMA”, a volte le prospettive cambiano.

Per me è andata così: ero nell’infelice ultimo atto di una lunga relazione e ho conosciuto una donna, L. Vivevamo in città diverse ma io viaggiavo spesso per lavoro; abbiamo cominciato a vederci ogni tanto, per un giorno, un weekend. Io tradivo la compagna con cui stavamo per lasciarci, il che faceva di L. una “amante”. Lei era in una coppia aperta, cioè diceva al suo fidanzato cosa veniva a fare a Firenze, il che faceva di me un “partner”. In un senso molto elementare, l’essenza del poliamore è questa: cosa dici a chi e che termini usi per chi, una questione di parole. Questo, ovviamente, non significa che sia cosa da poco. In un senso molto elementare, anche il diritto civile è una questione di parole.

In generale, e senza pretese di entrare in un dibattito lessicale agguerrito e vano come possono scatenarne solo le tassonomie inventate su internet, con “poliamore” o “non-monogamia etica” ci si riferisce a tutti i tipi di rapporti che differiscono dalla coppia chiusa. I casi specifici possono differire. Ci sono le coppie aperte, che mantengono un legame principale (a volte matrimoniale) e ammettono, con regole molto variabili, che si frequentino altre persone. Ci sono le coppie propriamente poliamorose, in cui queste frequentazioni hanno natura romantica e duratura nel tempo, senza necessariamente riconoscere una gerarchia fra partner diversi. Ci sono le “polecole”, cioè gruppi chiusi di più persone che hanno rapporti, di coppia, esclusivamente fra loro.
Che sia una moda non c’è dubbio: solo negli ultimi mesi New Yorker e The Cut vi hanno dedicato storie di copertina; da Passages di Ira Sachs a Servirsi di Lilian Fishman, nei film e nei romanzi che trattano di contemporaneità si affaccia sempre di più. Ma la moda riverbera anche nella realtà: nell’ultimo rapporto del Censis, fra gli under 40 in Italia ce n’è un 1,2% che vive in situazioni di non-monogamia consensuale (e un altro 4% che vive tradendo). Sembra poco ma non lo è: nel 2011, l’Istat rilevava che la popolazione dichiaratamente bi- o omosessuale era solo il 2,4%. Quando ho conosciuto L., senza veramente averlo deciso, in quell’1,2 ci sono entrato anche io.

Con i mesi abbiamo cominciato a vederci sempre di più, specialmente dopo che mi sono separato e trasferito nella sua città – non perché fosse la sua ma perché un tempo era stata la mia. L. conviveva con il suo partner principale, e con l’infittirsi della nostra frequentazione si sono sviluppate delle frizioni fra loro (non così con l’altro partner R., che lei frequentava da prima e che vede tuttora). Bisognava coordinarsi perché avesse casa libera; i suoi sabati erano contesi; capitavano momenti di imbarazzo nervoso in cui ci si incrociava in tre in una festa o a un bar. Dei disequilibri esistenti da prima si sono acuiti, delle piccole crepe si sono divaricate. Nel giro di qualche mese si sono lasciati e il partner principale sono diventato io.

Questa dinamica sembra illustrare un rischio delle relazioni aperte: se posso scopare con tutti, prima o poi con qualcuno ci scapperò. Questo potrebbe essere vero, se non fosse per il fatto che qualcuno con cui scappare (o scopare) lo si trova comunque. Quasi tutte le mie relazioni sono finite con (per?) il tradimento di uno dei due, o di entrambi: è spesso un esercizio astratto chiedersi quale sia la causa e quale l’effetto. Per molti versi la relazione di L. è terminata esattamente come la mia, solo in modo più onesto: con altrettanto dolore ma senza bugie. Anzi, si potrebbe dire che il mio tradimento segnava un punto di non ritorno nella mia relazione precedente, qualcosa che, se scoperto, ne avrebbe segnato la fine indipendentemente dall’eventuale soluzione della nostra crisi. Non così per L.: poteva capitare, è capitato, che un partner arrivasse e sparisse nel giro di qualche giorno o mese, cometa nel sistema solare delle sue storie di corso più lungo. Le crepe potevano sanarsi, i disequilibri appianarsi: l’onestà del loro rapporto avrebbe permesso di andare avanti. Il mio tradimento no.

Da questo punto di vista, la non-monogamia etica sarebbe anzi un modo per dare solidità alle coppie. In un mondo in cui quasi tutti, ogni tanto, tradiscono – e molto più spesso desiderano farlo – eliminarne il divieto non rende il legame più vulnerabile, bensì (arrossisco nel dirlo) resiliente. Di colpo una minaccia esistenziale smette di essere tale, e diventa qualcosa che accade di mercoledì. Questa è la ragione di molta dell’attenzione che il poliamore sta ricevendo di recente, specie negli Stati Uniti. I divorzi frequentissimi e il ricorso sempre più comune a terapie di coppia sarebbero un sintomo di crisi della coppia tradizionale, chiusa, nucleare, patriarcale: una istituzione superata dalle trasformazioni sociali, messa in crisi dal consumismo edonista dell’Occidente. Aprirla sarebbe un modo di salvarla. Altri sono in disaccordo con questa prospettiva. È riduttivo e umiliante, sostengono, stabilire una gerarchia fra partner, in cui una serie di satelliti esistono solo in funzione della longevità di un sistema solare. Non solo: questo finisce per negare il potenziale rivoluzionario del poliamore per come è stato pensato dalla controcultura, un metodo per scardinare la famiglia patriarcale e riappropriarsi del desiderio. La visione recente – per molti versi quella che pratichiamo io e L. – ne sarebbe una versione pacificata e scevra di ogni potenziale liberatorio, un imborghesimento.

Che nella sua pratica quotidiana la coppia aperta abbia qualcosa di borghese è innegabile, nella misura in cui prevede una certa dose di burocrazia. Le app di calendari condivisi sono fondamentali (una battuta ricorrente è che la parola “poliamore” è associata, da chi non lo pratica, alle orge; da chi sì a Google Calendar). Altrettanto importante, molto di più, è stabilire regole, altra fissazione borghese. Il fatto che si possa andare a letto con chiunque non significa che si possa fare qualunque cosa. Ci sono coppie che pongono limiti di tempo – mai vedere un altro partner più di un certo numero volte; mai più di un giorno a settimana. Ci sono soglie che alcuni non accettano di varcare: non si va in vacanza, non si dorme insieme. Con L. condividiamo alcuni piccoli riti che non hanno niente di sessuale, minuzie sentimentali legate a momenti importanti per noi. Sono cose solo nostre: se vi includessimo altre persone sarebbe un tradimento, ben più che nel caso di un atto sessuale che entrambi, prima di conoscerci, abbiamo fatto chissà quante volte, chissà con chi.

Le regole richiedono una conversazione costante, per essere certi di quali siano in ogni momento (come ogni cosa umana, cambiano) e cosa risulti accettabile e cosa no. Come stai? Va bene se esco con qualcun altro anche se hai un periodo complicato al lavoro? Potresti cancellare il tuo appuntamento di Tinder? Oggi sono un po’ triste e non so perché. Vista dall’interno, questa è un’occasione preziosa per avvicinarsi all’intimità dell’altro, sapere cosa desidera e prova, di cosa ha paura in un dato momento. È quindi, sì di nuovo, qualcosa che invece di minare la coppia la fortifica. Vista da fuori è solo il riflesso condizionato di gente che fa troppa psicoterapia. Potrebbe essere entrambe le cose.

Di sicuro è strano. L’altra sera L. ha visto un uomo conosciuto su una app perché io ero a cena con mia madre, a cui l’avevo presentata il giorno prima. Il prossimo weekend andrò a un concerto con un mio ex, e le ho chiesto se era un problema, dato che la prima volta che ci ha visti insieme si è sentita gelosa. M., che ha altri partner, viene a trovarmi ogni mese, ma il suo arrivo mi scombussola sempre e mi chiedo se significhi che è meglio chiudere. R., che L. vede da anni, ultimamente è distante, e quando lei ci pensa si rattrista. Ne parliamo, perché non voglio vedere triste una persona che amo, e a un certo punto ci rendiamo conto che la sto consolando perché un altro uomo la tratta male. Smettiamo di parlare e ci guardiamo, perché è strano.
È difficile capire come mai. Siamo condizionati a un modello di coppia chiusa; ne abbiamo le gelosie e gli automatismi, compreso il senso di cosa è strano e cosa no. Ma è impossibile dire quanto questo condizionamento sia culturale e quanto invece rispecchi qualcosa di più profondo sulla natura dell’amore e dei rapporti di coppia. C’è una misura in cui il senso dello “strano” va superato, gli automatismi reinventati per aggiornarsi a un mondo che cambia: capita lo stesso quando hai la tua prima storia omosessuale, e ti manca un immaginario a cui ricondurre la vostra quotidianità (per questo, non per pignolerie di quote, la rappresentazione nel cinema e in letteratura è importante: per avere modelli di come immaginarsi). Ma c’è un’altra misura in cui è una spia di ciò che si vuole nel profondo, una guida su come vivere felici. Che tipo di strano è lo strano del poliamore? Lo si scopre – lo stiamo scoprendo – caso per caso; e non lo si sa mai del tutto.

La domanda personale su quanta gelosia sia inevitabile, su quanto strano sia troppo strano, corrisponde sul piano collettivo alla domanda se il poliamore sia una moda del presente o un germoglio di futuro. Chiunque dica di avere una risposta mente. Di certo non ce l’abbiamo io e L. Il rapporto che abbiamo – appena agli inizi – ci sembra più forte e più libero – sì, anche più resiliente – di quelli avuti in passato; ma è difficile dire se dipenda anche dal fatto che è solo agli inizi, carico dell’energia dell’innamoramento. E anche fatta la tara a quella, siamo consci che questo tipo di equilibrio è possibile solo in determinate circostanze di privilegio: una malattia, un licenziamento, una gravidanza, anche solo la decisione di convivere può cambiarlo o ribaltarlo del tutto. Sappiamo che resteremo insieme, non sappiamo come. Ma chi lo sa? Tutti questi fatti della vita possono impattare egualmente una relazione tradizionale. Il rischio di innamorarsi di qualcun altro c’è sempre, e non è detto che vietarlo non lo carichi di un ulteriore brivido del proibito.

Fatico a immaginare un futuro in cui i rapporti aperti saranno la norma di grandi sezioni della società (fatico a immaginarlo per me!); ma cinquant’anni fa avremmo detto lo stesso per il matrimonio omosessuale. La difficoltà immaginativa non significa niente, perché la nostra immaginazione è limitata in modi che neanche sospettiamo, e una presa di coscienza di questi limiti è prerequisito di ogni grande trasformazione sociale. Il recente interesse verso forme di amore diverse dalla coppia chiusa, secondo me, aiuta a mettere a fuoco uno di questi limiti; ma forse non è quello che chi propugna il poliamore ha in mente.

In molti lo hanno collegato all’esperienza dei lockdown; la convivenza forzata senza sbocchi avrebbe finalmente smascherato l’asfitticità delle famiglie nucleari. Che siano asfittiche c’è poco dubbio; ma non sono certo che la soluzione sia aggiungere amanti e calendari condivisi. L’ho sentito di recente leggendo l’ultimo romanzo di Michael Cunningham, Day. Day mostra una famiglia queer, estesa, formata da due famiglie atipiche che fanno pod durante il lockdown: una con una persona in più della norma (una coppia con figli che vive col fratello di lei, il quale ama in modo diverso tutti e quattro), una con una persona in meno (una donna che ha voluto un figlio da un partner occasionale che accampa, invano, desideri di paternità ex-post).
Il gruppo messo in scena da Cunningham appartiene pienamente al presente, e temo al futuro: è portato insieme dalle necessità di tutelarsi durante la pandemia, e dall’emergenza abitativa di tutte le grandi città occidentali. Eppure la soluzione che trovano non guarda a un futuro di poliamore rivoluzionario: guarda al passato. Le famiglie allargate che appaiono in Day sono simili a quelle che vivevano con zii poveri, nonni matti, cugine scapole nell’Italia rurale; sono simili ai nuclei abitativi di ogni società preindustriale, dal passato recente a quello tanto remoto da sconfinare nella preistoria. Nel complesso della storia umana è la forma di vita di oggi, la famiglia nucleare isolata in appartamento, a essere un’eccezione. Non sono le coppie a essere chiuse e asfittiche, ma la nostra definizione di famiglia. Sta già cambiando.

Questo articolo è stato pubblicato nella primavera del 2024 nel numero 58 di Rivista Studio, “Dove stiamo andando”. Puoi comprare quel numero e molti altri allo store della rivista, qui. L’immagine è un frame del film Les Amours imaginaires, uscito nel 2010 e diretto da Xavier Dolan.