Industry | Dal numero

New Luxury Reloaded

Autenticità, sostenibilità, contaminazioni culturali ma anche hype e velocità: come le generazioni che hanno attraversato crisi economiche, instabilità politica e cambiamento climatico ridisegnano il significato del lusso.

di Silvia Schirinzi

Secondo il rapporto The State of Fashion 2023, stilato annualmente da Business of Fashion e McKinsey Company, quello che si avvia alla conclusione è stato un anno in cui a dominare le scelte dei consumatori nel settore del lusso è stata l’incertezza e la preoccupazione per le turbolenze economiche che hanno attraversato l’economia mondiale, con previsioni di rallentamento in alcuni mercati chiave come gli Stati Uniti (dopo il boom post Covid) e Cina. Secondo quanto rilevato dagli analisti, nel 2023 si è allargata ulteriormente la forbice tra i big spender e il consumatore occasionale che sceglie di investire in beni del lusso. Particolarmente interessanti, in questo contesto, sono poi le differenze nei consumi tra le fasce d’età, che raccontano tanto di una diversa disponibilità economica quanto di un approccio al consumo che ha molteplici sfumature. Non è un caso che negli Stati Uniti la spesa tra i consumatori più giovani sia quella più in sofferenza: il 76 per cento della Generazione Z e il 79 per cento dei Millennial hanno dichiarato infatti che nel 2023 avrebbero dovuto attingere ai propri risparmi, chiedere più credito oppure intraprendere nuovi lavori per gestire le proprie finanze, rispetto al 64 per cento della Generazione X e il 53 per cento dei Baby Boomer. Anche in Cina la lunga spinta dell’economia sembra aver raggiunto un plateau e i giovani adulti sono quelli che più risentono del rallentamento economico dovuto ai nuovi focolai di Covid 19 e all’aumento della disoccupazione giovanile. «Nel Paese», si legge nello studio, «il tasso di disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 16 e i 24 anni ha raggiunto quasi il 20 per cento nel 2022, rispetto al tasso nazionale complessivo del 5,5 per cento. Ciò ha comportato che molti giovani adulti stanno abbracciando stili di vita più umili rispetto a quelli dei loro genitori, in un cambiamento descritto come “tang ping”, espressione che può tradursi come «lasciarsi alle spalle la corsa al successo per perseguire una vita più modesta».

Il quadro di instabilità economica dell’ultimo anno, comunque, non è una novità per le generazioni che oggi hanno dai cinquant’anni in giù, come migliaia di meme ormai passati di moda hanno certificato: se le differenze nella capacità di spesa tra le diverse fasce di età è oggi lampante e in parte prevedibile, Generazione X, Millennial e Generazione Z sono in realtà culturalmente molto più vicine di quanto si creda. O meglio, sono le prime generazioni a essere interconnesse fra loro e ad assistere, da protagonisti, a una più generale globalizzazione del gusto, spinta ai massimi livelli dalle rivoluzioni digitali che hanno coinvolto prima chi è diventato adulto negli anni Novanta fino ad arrivare ai venti-trenta-quarantenni di oggi, che a quel decennio guardano con nostalgia. Il passaggio da una generazione perlopiù analogica alle prese con gli albori di internet fino all’iper connessione dei ragazzi di oggi è tanto più interessante da approfondire se si guarda a come l’idea di lusso, inteso come esperienza che aggiunge valore alla vita quotidiana, si è quindi riformulata a fronte degli scossoni socio-economici che hanno segnato gli ultimi trent’anni, con la crisi delle democrazie occidentali, l’affermarsi di nuovi centri propulsori di cultura e, parallelamente, di nuovi mercati, fino agli effetti della crisi climatica. Tutti fattori che hanno ridisegnato il rapporto tra il consumatore tipo e ciò che sceglie di consumare. Che cosa è oggi considerato lusso? E cosa è considerato aspirazionale? Che differenze ci sono nel modo in cui le diverse generazioni compiono le loro scelte in fatto di acquisti? Com’è cambiato l’immaginario della coolness, per usare un termine che oggi i ragazzi detestano, e i simboli che la rappresentano?

Per sbrogliare la matassa e cercare di capire come la moda interpreta questi cambiamenti, ho rigirato alcune di queste domande ad Angelo Flaccavento, giornalista e critico di moda già firma de Il Sole 24 Ore e Business of Fashion tra gli altri, una delle penne più autorevoli dell’industria. «Come parte della Generazione X», spiega Flaccavento, «credo che quello che ci è stato insegnato essere il significato del lusso era che comprando un prodotto ricercato, di un marchio elevato, si acquistava qualcosa che avesse un valore intrinseco, alto, come oggetto in sé. Il nome di un marchio sull’etichetta era il suggello di una ricerca sui tessuti, i tagli, il design. Tutto questo accadeva prima che le marginalità diventassero l’obiettivo primario. Oggi è considerato lusso un paio di scarpe del tutto simili a delle Crocs ma vendute a un prezzo dieci volte maggiore: più che sull’oggetto in sé, il significato si è quindi spostato sul racconto attorno all’oggetto». Storytelling, quindi, un altro di quei termini che non vorremmo più sentire, ma che di fatto rappresenta bene lo stato del lusso oggi: non più qualcosa di legato alla sola esperienza tattile dell’oggetto da acquistare, il cui valore risiedeva principalmente nella sua manifattura e riconoscibilità, ma un universo di significati molteplici che raccontano più delle culture contemporanee che dell’oggetto in sé. «Oggi le boutique del lusso attraggono un pubblico che non ha una conoscenza diversa da quella di chi compra da Zara: è la disponibilità economica a cambiare», continua Flaccavento, «Trovo cioè che ci sia una grandissima uniformità di pubblico. Anche i negozi erano molto diversi [negli anni Ottanta e Novanta, nda]: Hermès a Milano era un negozio non troppo vistoso, quasi polveroso, in via Sant’Andrea, angolo via Spiga, e così era Chanel. Erano luoghi dove entrava chi conosceva il marchio, ma non c’era l’hype di oggi né quell’idea di “scarcity” che fa formare le file fuori dai negozi. Oggi se un oggetto non è disponibile, non è possibile comprarlo se non accendendo alle liste e così via, diventa indispensabile. Non voglio generalizzare, perché ci sono ancora marchi i cui “oggetti” hanno un valore intrinseco, come nel caso di Fendi, Prada o Miu Miu, e sicuramente marchi come Valentino hanno ancora clienti molto riservati che si fanno fare il guardaroba su misura. Di certo, però, negli ultimi anni nel mondo sono aumentati i big spender, che spesso hanno tra i venti e i trent’anni, mentre allo stesso tempo assistiamo a una polarizzazione sociale senza precedenti. In questo momento storico tra chi compra il lusso è comune lo sfoggio poco elegante, diciamo così, sia sui social che nella vita reale, e basta farsi un giro in via Montenapoleone il sabato pomeriggio per capirlo».

Questo scarto tra l’oggetto e i suoi significati è la chiave per comprendere tanto le strategie dei marchi che oggi vogliono intercettare i clienti disposti a spendere quanto l’atteggiamento dei clienti stessi, per i quali l’investimento in un brand spesso si ricollega sì, come è sempre stato, al desiderio di segnalare il proprio status sociale, ma con una libertà di movimento senza precedenti. Un cliente capriccioso, per certi versi, che nella sua ricerca del pezzo di tendenza del momento (tendenze che internet ha moltiplicato a dismisura, di fatto rendendo possibile la coesistenza di cose lontanissime tra loro, con il risultato che tutto è di moda) richiede allo stesso tempo ai marchi che compra di certificare il proprio impegno in cause sociali, culturali, ambientali. Questa contraddizione è tanto più evidente in Millennial e Generazione Z, che per primi hanno assimilato il modello del fast fashion (Zara e H&M per i primi, Shein per i secondi), vero punto di intersezione tra ciò che si vedeva sulle passerelle e quello che era alla loro portata, e che ha contribuito inevitabilmente a strutturare la loro idea di lusso. Velocità, quindi, e soprattutto hype, concetto quest’ultimo che ha di fatto sostituito la tendenza vera e propria. Non sorprende, allora, che sempre secondo il già citato report di BoF siano proprio loro quelli che tendono a indebitarsi di più, facendo affidamento alle app Bnpl (“Buy Now Pay Later”): negli Stati Uniti, il 20 per cento dei clienti più giovani ha infatti dichiarato di aver acquistato beni di lusso nel 2022 con finanziamenti a breve termine e senza interessi, inclusi i servizi Bnpl. Le app di questo tipo, come Affirm o ClearPay, sono particolarmente popolari anche in Scandinavia, nel Regno Unito e in Germania, mentre in Italia faticano ancora a prendere piede.

Un ruolo fondamentale, in questi cambiamenti, lo hanno svolto poi le sottoculture, che sono state negli anni Ottanta e Novanta barometri della coolness e che oggi, complice la riproducibilità infinita permessa dal digitale, sono diventate molto più accessibili e soprattutto spalmabili. Non definiscono più un gruppo di persone legate a uno specifico luogo e a uno specifico vestiario, come lo erano i punk nel Regno Unito o gli skater della California, ma invece un atteggiamento, un lifestyle, che prende piede nei luoghi del globo più disparati. A fare da apripista, in questo senso, è stato lo streetwear, che dalla sua nicchia circoscritta ha raggiunto e vestito milioni di persone del mondo, assurgendo a nuova categoria dell’abbigliamento e contribuendo a sovvertire i modelli di business tradizionali, introducendo i “drop” (il rilascio di collezioni speciali al di fuori della classica stagionalità), canonizzando le collaborazioni fra marchi e ridefinendo, infine, il ruolo del direttore creativo, che non utilizza più solo i vestiti per creare il suo universo di significato attorno al marchio. La perdita di centralità dell’abito, e degli oggetti, va di pari passo con l’ascesa del personal brand, l’altro frutto della digitalizzazione estrema. Tutti questi processi, però, non hanno riguardato solo i creativi trasversali come Virgil Abloh, Alessandro Michele, Demna Gvasalia o Pharrell, rapper e artista poliedrico oggi a capo della linea uomo di Louis Vuitton, ma anche una schiera di “imprenditori di sé stessi” che oggi popolano gli spazi digitali. «Credo che il modo in cui oggi ci si approccia alla moda e al lusso riflette la molteplicità di questo momento storico. Non c’è più l’idea di “entrare” in un trend estetico e di mantenerlo per sempre: possiamo davvero essere tutto (e il suo esatto contrario) a ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana», continua Flaccavento, «Questa concezione del vestirsi credo sia un riflesso del fatto che l’identità stessa è sempre più frammentata, che non esiste più un unico centro identitario. I vestiti proiettano chi sei o chi vuoi essere, ma oggi non vuoi né essere né proiettare di te una sola idea. Sono diventato adulto negli anni Novanta e in quegli anni se sceglievi di vestirti Helmut Lang, ad esempio, ti legavi a una certa idea di coolness ma era una coolness decisa, sottile, data dai materiali, dai colori, dai dettagli, che erano sempre un po’ “off”. Oggi prevale quella che potremmo definire la “logica influencer”, per cui si indossa allo stesso modo il marchio di lusso e quello fast fashion».

Ecco perché i brandi nuova generazione scelgono un’estetica che riprende a piene mani dagli anni Novanta per intercettare i giovani clienti, come hanno fatto recentemente Poster Girl con la campagna di cui è protagonista la creator di TikTok Cindy Kimberly, o Sporty&Rich, che invece ha voluto riprodurre con la collezione Autunno Inverno 2023 le “paparazzate” di John F. Kennedy e Carolyne Besset, icone di stile anche per Millennial e Generazione Z, oppure ancora The Frankie Shop, brand che ha individuato nella Gwyneth Paltrow di quel periodo la sua musa. «La cultura della moda si è appiattita: è vero che il lavoro dei designer è ancora centrale e riconosciuto, anche perché paga ancora in termini di immagine, ma l’offerta finale è molto omogenea», conclude Flaccavento, «La moda, però, rimane specchio del suo tempo e lo riflette nel bene e nel male. Quello che oggi manca, in un’industria dominata dalle eminenze grigie dei Ceo, intelligenti e capaci ma molto diversi da quegli “animali di moda” interessati al genuino atto del vestirsi, è forse l’essere un laboratorio estetico che produce cose che poi vanno a rompere le scatole. Credo che le estetiche che rompono l’anima oggi non siano elaborate dalla moda, sono cose che si vedono pochissimo, sono sottoculture oscure che praticano l’offline come valore vero». Un valore, quello della disconnessione, che tutte le generazioni stanno riscoprendo e che, è legittimo prevederlo, definirà sempre di più ciò che consideriamo lusso.

Mercoledì 22 novembre ci vediamo al Museo Diocesano per Status, una serie di incontri dedicati ai tanti significati del lusso e dello status sociale. Clicca qui per iscriverti.