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Napoli città erotica

Per qualche motivo il capoluogo partenopeo sembra stimolare il desiderio sessuale più di qualsiasi altro, tra figure attorcigliate nei vicoli e nei parcheggi, e brevi appassionanti inseguimenti.

di Gianluca Nativo

Da "Intostreet" di Liberato

Sarebbe curioso sottoporre a un’équipe di urbanisti uno studio che si interroghi sul meccanismo per cui una città stimola il desiderio sessuale più dell’altra. Quali architetture, quali spazi, e a che altitudini si veicola il piacere. Non il solito sondaggio sulle abitudini sessuali della popolazione ma una geometria precisa, una mappa mentale disegnata da uomini e donne eccitate.

Escluderei a prescindere tutte le città che si sviluppano in pianura, quelle che hanno null’altro se non il cemento a fare da orizzonte. Indispensabili le altitudini diverse: ci vogliono colline, salite e discese, belvedere, piazze larghe e nascoste, portici, vicoli stretti, preferibilmente ciechi, alberi, scale buie, qualche chiesa abbandonata, spiagge, immense periferie, strade chiuse al traffico. E Napoli, in questa indagine, si candiderebbe come principale case study.

Quando tra amici si iniziava a parlare di sesso, i racconti che venivano fuori erano quasi tutti en plein air. In pochi, dopo una serata, portavano qualcuno su, a casa, nelle stanze attigue a quelle dei genitori. Tuttalpiù si limitavano all’androne del palazzo. Ancora oggi, spesso di notte, nei vicoli più bui, intorno a un locale si distinguono figure attorcigliate, quasi sempre innestate sulla sella di un motorino. Napoli, di notte, diventa una specie di grande dark room all’aperto. Vico Giuseppe Orilia, tra le auto parcheggiate di piazza Miraglia, vico Pallonetto, sotto l’arco di Largo Tarsia, tra le colonne di piazza del Plebiscito. E finora si sono esclusi i parchi: luogo d’elezione del cruising napoletano. Il sesso all’aria aperta è del resto filologicamente gay. Esistono ancora online mappe nostalgiche dei principali luoghi d’acchiappo: tolte le saune del centro direzionale e il cinema hard di piazza Matteotti, rimangono le aiuole di Molosiglio, i giardini di Palazzo Reale, i bagni della Feltrinelli di piazza dei Martiri, difficile anche tornare da una passeggiata a via Toledo senza essere trattenuti dall’ammicco di qualcuno e, infine, la fontana del bosco di Capodimonte. L’ombra dei grossi vialoni trasmette un’aria da fiaba, e come in tutte le fiabe da qualche parte l’orco si aggira. Qualche anno fa ha anche fatto una vittima. Il cadavere trovato lungo un fosso di un ragazzo “morto mentre faceva jogging” ha subito suscitato sospetto e paura in chi sa cosa implica abbandonare i vialoni e infrattarsi nel fogliame fetido. Si racconta di gente rimasta intrappolata nel bosco dopo la chiusura dei cancelli, e chissà che riti, che sacrifici si svolgeranno al buio. Sfido chiunque ad aggirarsi intorno alla fontana senza imbroccare lo sguardo di un altro avventore.

E non basta il fascino del centro. Anche le periferie più anonime, troppo lontane dalla città, troppo lontane dal mare, offrono nuove suggestioni: non solo i classici alberghi a ore assiepati lungo le strade provinciali: hotel Piper, Villa Verde, e così via ma, tra Mugnano e Qualiano, è sorto da poco un curioso luogo di ritrovo: Love Parking. Un parcheggio, niente di più. Eppure all’ingresso, invece del solito parcheggiatore brusco ritroviamo palloncini rosa e un grosso cuore luminoso. E ancora su ogni posto auto una strana cappotta tutta decorosamente bianca. Per chi non ha tempo, né soldi o semplicemente è stanco del solito albergo, la provincia viene in soccorso con un parcheggio dove scopare con discrezione e soprattutto al sicuro (spaventa di più la rapina mentre si sta con i pantaloni abbassati che la denuncia per atti osceni in luogo pubblico).

«Napoli suscitava l’ammicco e il sorriso del connoisseur quale sinonimo ed epitome di sessualità a buon mercato e bisessualità disponibile ad ogni angolo di strada», e questo è Arbasino. Di letteratura ce n’è in abbondanza: da Petronio a Boccaccio, ma anche Leopardi che a Napoli chissà quali e quanti piaceri scopriva, pur di rimediare alle delusioni d’amore per Ranieri (come racconta Franco Buffoni in Silvia è un anagramma, Marcos y Marcos), fino alla sensualità dei racconti di Patroni Griffi, Fratelli d’Italia, il cinema di Martone, le orge ne La pelle di Malaparte, L’amore molesto della Ferrante.

A Napoli i confini non esistono, e basta poco quindi per confondere sensualità con molestia. Quasi tutte le mie amiche sono state vittime di cat calling – apprezzamenti volgari o solo indesiderati –, rituali “ti amo anche oggi”, sfacciati “voglio fare l’amore con te”  ad ogni angolo di strada. In maniera minore ma comunque diffuso anche tra i giovani adolescenti, ingenui provinciali abbordati da mani furtive, veloci, uomini insospettabili che appoggiano il bacino ad ogni frenata brusca. Ma anche lì il confine subito diventa scivoloso: mi stanno molestando o mi stanno rapinando?

Un amico toscano, dottorando di architettura a Napoli, mi confessa: «Le cose che capitano qui capiteranno solo a New York». Si riferisce a un suo viaggio in metropolitana, linea 2. Un ragazzo con sul braccio tatuato a lettere gotiche il nome della fidanzata “MARICA” lo fissa, non sostiene il vuoto del vagone e allora gli si fa vicino, gli infila la lingua in bocca e poi lo lascia andare. E molte storie simili che quasi sempre hanno a che fare con un tampinamento tra la folla, un leggero rincorrersi per le strade fino ai bagni del dipartimento. C’è stata anche la storia d’amore: un parcheggiatore abusivo, padre di due figli. Il dottorando toscano lo portava a teatro, nei musei di domenica: con quale grazia sa lasciarsi andare chi riconosce la sensualità di una città come Napoli.

Non io, però. Chi, come me, viene dalla provincia spesso ha poca scelta. Come sempre si è costretti a guardare alle meraviglie della città con un desiderio frustrante, perché sai che di lì a poco sei costretto ad andare via per tornare a casa, vittima di un pendolarismo che è una condizione dell’esistenza. Poco tempo fa ho adocchiato un ragazzo in uno dei vagoni della metro. Più giovane di me. Era insieme ad altri due amici. Capelli ossigenati, piccola espansione all’orecchio, al polso un braccialetto di gomma di qualche vecchia campagna per la prevenzione dell’Hiv. Uno di loro mi ha cercato con lo sguardo, io, dall’alto della mia esperienza, ho ricambiato con eleganza. A lui è scappato un sorriso ed è sprofondato nel colletto della sua giacca, sussurrando l’avvenimento agli amici che a turno con discrezione sono tornati a guardarmi.

Che invidia, mi dicevo. Avere quindici, sedici anni e indossare con tale leggerezza la propria sessualità, condividerla con un paio di amici, in mezzo a quella folla avvilita di pendolari. Ho ripensato spesso a quei tre ragazzi, la bellezza del loro stare insieme. Io, a dispetto della città, ho scoperto la mia sessualità da solo, senza punti di riferimento, complicità naturali. Sarà per questo che mi sono messo a scrivere? Non lo so. L’importante è lasciare una traccia, un simbolo, un riferimento, anche solo un braccialetto di gomma, una ciocca di capelli biondo ossigenato.