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L’impensabile ritorno del mullet, il taglio che sta male a tutti

Dagli egizi a Miley Cyrus e Rihanna, apoteosi di un'acconciatura che ha attraversato la storia ed è tornata di moda.

di Corinne Corci

Miley Cyrus alla sfilata di Tom Ford AW20 il 7 febbraio 2020 a Hollywood (foto di Amy Sussman/Getty Images)

Che un giorno Rihanna mi avrebbe ricordato quel codino lungo che scendeva dalla nuca dei bambini maschi dell’asilo, falla estetica della mia generazione, liscio, decolorato sfumato o in boccolo come un nobile francese del 1700, è qualcosa a cui non ero ancora preparata. Che improvviso dono del 2021, nuova incredibile annata. Perché anche se sta male a tutti, il mullet, il taglio di capelli con cui Badgalriri ha fatto il proprio ingresso nel nuovo anno (ma che già aveva proposto nel 2013 all’apertura della settimana della moda di New York), dopo Miley Cyrus, Cara DeLevingne in quarantena, Ursula Corbero, Tiger King, e prima di tantissime altre persone che l’hanno riscoperto in questi mesi, piace. In qualche modo. Almeno a quelli che se lo stanno facendo.

Il bi-level. La cascata del Kentucky. Il compromesso del Missouri. Il taglio da giocatore di Hockey. Non importa come venga chiamato, io lo chiamo il furetto, il mullet direttamente dal suo apogeo negli anni Settanta grazie a Ziggy Stardust di David Bowie e poi reso tanto popolare negli anni Ottanta, è tornato in nuove diversificate varianti. Con la frangia a tendina, più scalato, più mosso, più riccio modello Maradona, da porno attore teutonico (esiste, si chiama “german porn star-football mullet”) sobrio, ideale per nascondere probabilmente un principio di piazza come quello di Beckham (e infatti Menshelath qui spiega come farselo da soli), estremo come quello finto sfoggiato da Zendaya ai Grammy nel 2016, dietro lunghissimo e liscissimo e davanti a scodella piastrato tipo Jesse McCartney.

Etimologicamente, il termine “mullet”, triglia, è stato coniato nel 1994 grazie alla canzone dei Beastie Boys “Mullet Head”, tanto che l’Oxford English Dictionary li accredita come i primi a usare quella parola per nominare il taglio alto-basso/corto-lungo, descritto come “Business in front, party in the back”.  Lo stesso Mike D dei Beastie spiegò sulla rivista Grand Royale che il testo della canzone faceva riferimento proprio al pesce, la triglia, perché «è più strano degli altri pesci, ha la testa grande, gli occhi alti, sembra un po’ scemo». Ma la storia del taglio di capelli più brutto e più di tendenza di sempre sarebbe incredibilmente antica, prima che diventasse parte dello stile di Kurt Russel, di Billy Ray Cyrus o di Jane Fonda.

 

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Stando a quanto racconta Alan Henderson nel suo Mullet Madness, il taglio veniva utilizzato già dai popoli preistorici, così che potessero mantenere il collo più caldo ma senza essere scomodi, con i capelli davanti agli occhi, in caso di scontro. Venne usato dagli antichi corridori di carri romani, dai guerrieri ittiti, insieme agli assiri e agli egiziani. A un certo punto, come ricorda Dazed Beauty che ne ha tracciato la storia epoca per epoca, comparve Benjamin Franklin, che alla fine del XVIII secolo indossava uno “skullet”, calvo sopra e lungo dietro, bellissimo. Poi eccolo entrare con forza nella cultura pop, occupare il proprio spazio quando ancora non aveva un nome, prima con il glam rock di David Bowie, Rod Stewart, c’era anche Paul McCartney dell’era Wings, col mocio davanti che si estendeva sul retro. Fino agli anni Ottanta: Patrick Swayze in Dirty Dancing, Kiefer Sutherland in The Lost Boys, qualsiasi protagonista di film d’azione, James Hetfield dei Metallica, che tu fossi metal o country, yuppie, ribelle come Steve di Stranger Things, punk, atleta, motociclista, con quell’estetica del tamarro che ti dice ehi vuoi salire sulla mia decapottabile, sfrecceremo verso il tramonto e ti farò dimenticare come ti chiami (ce l’ha anche Verdone in Viaggi di nozze quando interpreta Ivano). Persino no gender, come spiega una donna nel documentario di Jennifer Arnold del 2001, American Mullet, «per uomini e donne, per tutti quelli che hanno il coraggio di farselo». Eppure negli anni Novanta il mullet sembrava aver imboccato la via del declino, elemento di riconoscimento degli outsider come in Gummo di Harmony Korine, o come quello decoloratissimo di Chloë Sevigny. Non solo lo stile stava svanendo, ma stava diventando una delle acconciature più divisive di tutti i tempi. Come accade oggi.

Coloratissimo, nero, naturale, verde, poi meno drastico – alcuni hairstylist lo chiamano “chillet” – come quello portato in passerella a settembre 2017 da Virgil Abloh, successivamente da Prada, Philip Lim e Moncler, poco gestibile e meno ancora portabile ma comunque estremamente attrattivo come appare nelle foto postate dall’hair guru Guido Palau su Instagram (così sicuramente la pensano quanti partecipano al Festival del Mullet, nato nel 2018 nel New South Wales). E dal 2020 a oggi è esploso di nuovo, come fosse un modo per catalizzare tutte le fatiche dell’anno (abbiamo già abbandonato il reggiseno quando era soltanto un vezzo, così come un insieme di accorgimenti estetici in nome di una nuova pratica più soggettiva e personale). Che forse è anche comodo. E non capisci mai dove finisce il mullet e inizia un certo modo, catartico, di abbandonarsi alla vita.