Gli scali nell'area vicino alla Fondazione Prada, fotografie di Filippo Romano

Stili di vita | Dal numero

Milano e la trasformazione degli scali ferroviari

Un viaggio nel progetto di cambiamento più ambizioso nella storia della città. Dallo speciale Milano 50 nel numero 37 di Studio, in edicola.

di Davide Coppo

Di cosa è fatta una città? Le città sono mondi in miniatura: le dinamiche della storia dell’umanità in una città sono rimpicciolite e accelerate, e se siamo fortunati possiamo vivere in vita cose simili a ciò che, messo in quella scala umana e di conseguenza ingrandito, sarebbe un mutamento fondamentale, un cambio di prospettiva storico. Qualcosa del genere, in forma ridotta, a Milano è successo nel 2012 con la costruzione della Torre Unicredit, la più alta della città, una delle più alte del continente. Da ragazzi, al liceo, i miei amici e io ci trovavamo spesso sul tetto della casa di un altro amico in corso Sempione. Da lì, le notti, con i piedi vicini al bordo del nono piano, cercavamo i punti di riferimento illuminati in quella prospettiva nuova, dall’alto, e immaginavamo i tragitti abituali scrutando i tetti, anziché le strade. A rifare lo stesso gioco oggi, la Torre Unicredit, ma anche la Torre Diamante, o il trittico di grattacieli della nuova City Life, lo renderebbero completamente diverso. Allo stesso modo ricordo lo straniamento delle prime settimane dopo l’inaugurazione della Torre con il suo pennone a spirale, quando per orientarmi verso casa – abito a nord, in un quartiere limitrofo alla nuova costruzione – avevo a disposizione nel cielo quella nuova stella artificiale che per più di vent’anni non era, semplicemente, esistita.

Ci vorrebbe la penna di uno scrittore appassionato di architettura come W.G. Sebald per raccontare, tra 10 o 15 anni, il processo di cambiamento in cui Milano sta per entrare

Ci vorrebbe la penna di uno scrittore appassionato di architettura come W.G. Sebald per raccontare, tra dieci o quindici anni, il processo di cambiamento in cui Milano sta per entrare, il più grande nella storia della città e, probabilmente, uno dei più ambiziosi di sempre in Italia o in Europa: quello che riguarda i sette vecchi scali ferroviari. I giornali, come gli urbanisti e gli architetti, parlano di “riqualificazione” o “rigenerazione”, ma più semplicemente, o profondamente, si tratta di una trasformazione: enormi spazi che tra il 1800 e il 1900 erano stati destinati al trasporto merci su rotaia, da decenni giacciono abbandonati come colossali piscine vuote, laghi interni alla città, a ridosso del centro. La giunta guidata da Beppe Sala, dopo un tentativo fallito dell’amministrazione precedente, è riuscita a luglio 2017 ad approvare (34 voti favorevoli, 4 contrari), «l’Accordo di Programma per la riqualificazione dei sette scali ferroviari dismessi», come si legge nel comunicato ufficiale del Comune. Si tratta di circa un milione e duecentocinquantamila metri quadri di superficie da trasformare in qualcosa di nuovo – i bandi sono partiti, avranno vita diversa (Greco è il più avanzato), e i masterplan non sono ancora stati approvati né discussi – e che cambieranno la faccia della città completamente, da nord a sud, unendo il centro alle periferie. Nasceranno, all’interno della città, sette nuove zone con diversa destinazione, per un totale di un milione e 200mila metri quadrati, da Porta Genova passando per il quartiere Isola fino a Lambrate.


Più concretamente, è stato un attento – e lungo – lavoro politico dell’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran. «La prima cosa che ho fatto da assessore è stata tornare in Consiglio comunale dicendo: il consiglio ha bocciato l’accordo sei mesi prima, indicatemi quali sono gli obiettivi che si pone il consiglio per andare ad approvare il piano», mi ha raccontato nel suo ufficio affacciato sulla Galleria Vittorio Emanuele II, una sera di novembre. «Alla fine siamo riusciti a farlo approvare con 4 voti contrari, persi in un certo senso fisiologicamente, ma con una maggioranza molto ampia che ha tenuto insieme centrosinistra e centrodestra. Abbiamo ottenuto un accordo che era simile nei contenuti al precedente, ma che aveva qualificato alcuni obiettivi che prima erano molto più abbozzati e meno importanti». Vale a dire: la centralità di quella che Maran chiama “Circle Line”, nelle intenzioni del Comune una metropolitana scoperta che circondi la città; la quota del 65% di verde; e la presenza di “housing sociale” nei due scali più centrali, quello di Farini e quello di Porta Romana, e non soltanto in quelli periferici.

Siamo riusciti a far approvare il piano con una maggioranza molto ampia che ha tenuto insieme centrosinistra e centrodestra

Pierfrancesco Maran

Lo scalo di Porta Romana colpisce subito, perché lo si può ammirare dall’alto, guardandolo dal cavalcavia di via Ripamonti – è un parallelepipedo di quasi 200mila metri quadrati, ed era un tempo ricoperto di verde selvatico come una giungla, misterioso e indecifrabile, in una città – ma finora avevo sempre percepito lo scalo Farini, a pochi passi da casa mia, come uno spazio abbandonato, e non come opportunità: chiuso da muri di cemento alti tre metri, escluso dall’orizzonte visivo della strada, non si riesce a farsi un’idea della vastità dello spazio dietro quei limiti. È invece il più esteso – più di 400mila metri quadrati – e, dice Maran, «ospiterà il terzo parco più grande della città quando sarà completato», oltre alla seconda sede dell’Accademia di Brera, che accorperà tutte quelle distaccate oltre al Palazzo, sede storica.


Quando ci cammino vicino, cerco delle fenditure tra i muri per poter visualizzare la vastità del nuovo parco, ma non è facile perché la trasformazione sarà radicale: uno spazio così nuovo che è difficile soltanto da immaginare. «Questi grandi vuoti di fatto sono un po’ le nostre coste interne, i nostri fiumi mancati, i nostri sogni di mare», mi aveva detto pochi giorni prima Nicola Russi, il co-fondatore dello studio di architettura Laboratorio Permanente. «Milano è una città senza geografia apparente, e all’interno di una geografia artificiale bisogna farsi carico non solo di costruire ciò che è in antitesi alla geografia e alla natura ma di progettarne l’inverso, cioè il vuoto, gli spazi aperti, gli orizzonti». Ma un progetto che durerà oltre dieci anni dovrà per forza evolversi mentre cresce, e i rischi ci sono: sono quelli di pensarci troppo, anziché troppo poco, e voler decidere in un certo senso aprioristicamente tutto ciò che dovrà nascere in quello spazio. Maran è d’accordo. «Non bisogna progettare troppo», dice. «Abbiamo fissato delle regole, ma hanno un grado di elasticità. Io vorrei veder partire i cantieri dello scalo Farini prima del 2021, sapendo però che non possiamo disegnare i dettagli, e che bisogna sapere con intelligenza cogliere le opportunità nel tempo».

Un’altra immagine che mi si forma in mente, pensando alla città e al progetto degli scali, è quella di un organismo multicellulare e intelligente che si guarisce da solo e, là dove c’erano ferite, fa nascere un nuovo tessuto – e a pensarci ancora, proprio “rigenerazione” e “tessuto” sono termini utilizzati spesso in urbanistica come in biologia. L’obiettivo delle città, oggi, tramontata definitivamente l’epoca dell’espansione industriale, è quello di guardarsi dentro e agire lì, anziché intorno a sé. Quando ne parlo con Azzurra Muzzonigro, architetto e ricercatrice urbana (ha coordinato per Stefano Boeri Architetti la redazione del progetto Un Fiume Verde per Milano), mi risponde: «Il modello che ha portato le città a espandersi all’infinito senza una logica e una direzione, il cosiddetto sprawl urbano, ha creato una serie di edifici ammassati l’uno sull’altro senza una regia, ed è soprattutto un modello di città a bassissima intensità relazionale: non ci sono spazi pubblici, non ci sono luoghi di aggregazione, Boeri la definirebbe “Anticittà”». Che è il contrario di quello che Milano, ma non solo, sta cercando di diventare: una città invece più densa che sappia mantenere al suo interno corridoi ecologici, aumentare le possibilità di relazione, e soprattutto ricucire il centro con le periferie cambiando quella che era la sua natura profonda: da città estremamente monocentrica, diventare il contrario. Un mondo in miniatura, appunto, che sappia contenere verticalità e verde, e non debba continuamente andare alla ricerca di una frontiera da conquistare. «Le due grandi sfide oggi sono le periferie e l’ambiente. Gli scali sono una chiave di volta in termini urbani, perché quei progetti dovranno saper declinare esigenze sia locali che più ampie, nazionali e internazionali», dice Azzurra Muzzonigro, e continua: «L’opportunità dell’anello ferroviario è che sta a una distanza tale dal centro da poter ricucire e mettere a sistema il rapporto con la più ampia scala metropolitana: insieme agli scali fa da snodo ed è una cintura, una potenzialità di creare una città policentrica, far nascere sette nuove città dentro Milano».

Le due grandi sfide oggi sono le periferie e l’ambiente. Gli scali dovranno saper declinare esigenze sia locali che più ampie, nazionali e internazionali

Azzurra Muzzonigro

Come quella di un organismo complesso, l’intelligenza delle città è sfaccettata: sa imparare nuove abitudini, come quella di abbandonare l’equilibrio a un solo centro e dotarsi di più punti di riferimento; sa riconoscere la propria salute e risanarla con nuovi parchi; sa imparare a non trascurare le parti del proprio corpo, cercando di migliorare le periferie senza crearne di nuove. Non tutte le città lo sanno fare, naturalmente, perché non è un’attività facile, perché a livello più microscopico ci vuole il lavoro degli uomini giusti, e non è semplice trovarli in tutti i tempi, e questa stessa città a lungo non si è trovata nelle condizioni giuste. Ma Milano lo sta facendo da almeno sette anni, con un piano che durerà almeno altri quindici e con una coscienza che si basa sul più semplice dei metodi di apprendimento: guardarsi indietro, imparare, e maturare. «Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri», ha scritto Calvino a proposito de Le città invisibili, e Milano sta trasformando la memoria del passato per creare desiderio di futuro.