Mick Herron resta un convinto pessimista, nonostante il successo di Slow Horses

Da pendolare e scrittore part time ad autore di una saga diventata una delle serie tv più amate di questi anni: una conversazione con Mick Herron su spie, terrorismo, depressione, meteo inglese e Gary Oldman.

17 Dicembre 2025

Mick Herron è quasi loquace per gli standard inglesi. Il copione fatto di risposte già date decine di volte sul successo dei suoi romanzi di spionaggio lo recita con voce pacata e in maniera garbata. Il suo racconto però diventa subito ironico quando una domanda lo coglie davvero di sorpresa, rivelando quanto sia stato in grado di plasmare una carriera e una vita che lo soddisfano nel profondo.

Le aspirazioni frustrate di poeta, i lunghi tragitti in treno da pendolare tra gli scorci brutalisti del Barbican e i primi romanzi scritti dopo cena, al ritorno dall’ufficio, non hanno reso Herron disilluso né cinico, rimane fedele al suo amore per il gesto e il tempo dello scrivere. Tutto il suo cinismo è riservato alla politica inglese e al prezzo della fama. Per Herron la realizzazione sta altrove: nella vita tranquilla a fianco della compagna e nel lusso che il successo internazionale di Slow Horses gli regala oggi. Quello di avere tempo di lasciare che pensieri e parole macerino, scrivendo solo al momento giusto.

Un profilo del New Yorker che ti ha definito «il miglior romanziere di spionaggio di questa generazione», ma con un punto interrogativo finale. Ti riconosci in questa definizione o sei d’accordo con quel punto interrogativo?
Mi sento immensamente lusingato ma non mi influenza quando sto davvero scrivendo. Mi sento esattamente come mi sentivo quando non ero pubblicato, o quando lo ero ma pochissimi mi leggevano. L’atto della scrittura resta costante e le uniche pressioni reali sono quelle che mi impongo da solo, cercando di essere il miglior scrittore possibile.

A proposito di processo creativo: è cambiato con il passaggio da una scrittura “part-time”, affiancata a un altro lavoro, alla scrittura a tempo pieno?
Sì, inevitabilmente. All’epoca facevo il pendolare e passavo circa quattro ore al giorno in viaggio. Non scrivevo mai in treno, perché per me scrivere è una cosa molto personale. Però pensavo a quello che avrei fatto, così quando tornavo a casa la sera avevo circa un’ora in cui potevo scrivere, se avevo abbastanza energie. Usciva tutto molto in fretta, perché ci avevo riflettuto durante il viaggio e, magari, anche mentre avrei dovuto fare altro per lavoro.
Quando sono diventato uno scrittore full-time, ho dovuto trovare un modo diverso per avere quel tempo di “macerazione”. Ci ho messo un po’. Ho imparato anche a non mettermi pressione: non era questione di alzarsi e iniziare a lavorare alle nove, ma aspettare di arrivare a un punto in cui mi sentivo in grado di scrivere. Rispetto a quel periodo, la mia media giornaliera di parole scritte non è molto più alta, perché il tempo di pensiero, il tempo di sedimentazione, è una parte necessaria del processo.

Che ruolo hanno la routine e lo spazio di lavoro nel tuo processo di scrittura?
Scrivo in un appartamento vicino a dove vivevo: non ci abito più, ma ci vado quasi tutti i giorni per lavorare. Arrivo verso le 9 e inizio subito, anche se è un processo lento. Accendo il portatile, mi faccio un caffè – non bevo tè, sono poco inglese da quel punto di vista – e poi passo almeno metà della giornata a leggere più che a scrivere. Ma il lavoro arriva: non deve arrivare in fretta, deve solo continuare ad arrivare ogni giorno, a piccoli pezzi, e alla fine si accumula.

Ho letto che il tuo passaggio di genere dal crime allo spionaggio è stato in parte legato agli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, che tornano anche nelle biografie di alcuni personaggi di Slow Horses. Che impatto ha avuto su di te come scrittore?
Lavoravo a Londra, ed ero lì il giorno in cui ci sono stati gli attentati. Stavo attraversando la città e, all’improvviso, tutta l’infrastruttura dei trasporti si è fermata. È stato un viaggio difficile e non ho capito cosa stesse succedendo finché non sono arrivato al lavoro. 
All’epoca pensavo che scrivere di spionaggio o di terrorismo fosse fuori dalla mia portata perché non mi interessava fare quel tipo di ricerca. Ma quel giorno forse ho intuito che non devi necessariamente capirlo: succede e basta. E la maggior parte delle persone, vicino a un’atrocità così, non ha alcun ruolo: è lì, è un semplice testimone. Questo è diventato parte di ciò che volevo scrivere.

Spesso ti si descrive come una sorta di profeta della politica britannica: alcuni eventi del panorama politico attuale, come la Brexit, sono stati anticipati nei romanzi di Slow Horses. Da cosa nasce questa lucidità?
È solo pessimismo, credo. Ho immaginato le cose peggiori che potessero succedere e diverse sono effettivamente successe. Io leggo soprattutto narrativa: non leggo testi di teoria politica o cose simili. Certo, seguo i giornali e leggo i titoli ogni giorno, ma la mia lettura è per lo più fiction.

Quando consiglio i tuoi libri a chi non ti conosce, spesso che dico solo uno dei ritratti più accurati delle dinamiche d’ufficio. Quanto c’è della tua esperienza in questo sguardo? Che tipo di collega eri?
È buffo: proprio prima di salire sull’aereo stamattina stavo leggendo una lunghissima email di un ex collega che mi aggiornava su cosa stia succedendo al lavoro. Andavo molto d’accordo con i miei colleghi, ci siamo divertiti, mi piaceva la mia vita lavorativa. Il mondo che descrivo nei romanzi di Slow Horses non è basato in dettaglio sulla mia esperienza, ma su ciò che ho osservato della vita d’ufficio. Quello dei miei romanzi è popolato da persone che non vogliono essere lì, che ci sono finite per fallimenti personali. Questo crea una dinamica diversa. Però è vero: la dinamica d’ufficio mi interessa ed è stata lo stimolo per scrivere questi libri. Sono molto più interessato e molto più consapevole di com’è la vita quando ti alzi ogni mattina e vai a lavorare, rispetto a come sarebbe la vita se fossi una spia.

La saga di Slow Horses è radicata nella zona del Barbican. Ora che sei più un pendolare e non ci passi più vicino ogni giorno, dove trovi l’ispirazione per ricreare quel luogo nei libri?
Ogni tanto torno al Barbican e in quella zona per ricordarmi com’è. È vero che non sono connesso in modo così diretto a quei posti che ho scelto di usare nei romanzi, perché erano vicinissimi a dove lavoravo. A volte temo di perderne il contatto, ma non credo sia successo. Non ancora, almeno.

Che cosa comporta, per te, avere un adattamento televisivo di successo alle spalle? Quali sono i pro e i contro?
Contro ce ne sono pochissimi, soprattutto perché la serie ha avuto successo ed è anche qualcosa di cui personalmente sono molto contento. Hanno fatto un lavoro splendido: hanno cambiato qua e là le trame, ma hanno centrato i personaggi, l’atmosfera, il tono. È questo che conta davvero in un adattamento. Sarebbe difficile per me se mi avesse reso più “visibilmente” famoso, ma da scrittore non vieni davvero riconosciuto. Non vorrei quel tipo di celebrità: quella ce l’hanno gli attori, ovviamente, chiunque sia sullo schermo.

C’è molta tristezza nei tuoi personaggi: sono spesso infelici, depressi. Mi sembra comune anche in altri autori inglesi di spionaggio. È un tratto del genere o qualcosa di specificamente britannico?
È interessante. Potrebbe essere una cosa molto inglese, qualcosa su cui ci concentriamo spesso quando scriviamo in questo genere. E se è così, non so davvero da dove venga. Ovviamente la Guerra fredda ha avuto un ruolo enorme. Ma sì, forse hai ragione: è un tratto molto inglese. Non ho idea del perché. Magari c’entra il meteo.

E tu, come persona, sei malinconico?
Sono contento, perché mi piace essere uno scrittore. Mi piace scrivere e lo trovo molto appagante, quindi non mi sento frustrato o ostacolato come i miei personaggi. In questo momento non ho molto di cui lamentarmi: vivo una vita molto piacevole. Però sì, mi piace esplorare stati emotivi diversi nei libri e mettere i miei personaggi in stati emotivi diversi. Credo che la felicità sia più difficile da scrivere rispetto alla tristezza.

Tutti ti chiedono di Jackson Lamb e del rapporto con l’interpretazione di Gary Oldman. Ora che Lamb è diventato una sorta di “immagine” del tuo lavoro, un simbolo: come ti senti nei suoi confronti? Lo ami ancora, se mai lo hai amato?
Mi sorprende, perché lui non è una persona piacevole. Però spero che i lettori capiscano che lì dentro c’è altro: molte delle cose terribili che dice sono guidate dall’odio verso sé stesso e anche dal disgusto per il lavoro che fa o che ha fatto in passato. Penso che le persone vedano un mistero, una sorta di storia segreta, che finora io non ho fornito. E credo che molti personaggi funzionino meglio se restano enigmatici.

Quindi sei ancora convinto di non rivelare il suo passato?
In realtà ne ho fatto un po’ in The Secret Hours. E potrei farne di più in futuro.

Dici che leggi molta narrativa di finzione in cerca d’ispirazione. Cosa hai letto di recente?
Ho appena finito di leggere Il campo di rose di Philip Pullman. È meraviglioso: è una serie di romanzi straordinaria, apparentemente per bambini, ma credo che anche gli adulti dovrebbero leggerla. È una conclusione perfetta, a quella che è essenzialmente l’opera di una vita. È un libro bellissimo e credo che i lettori lo ameranno.

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