Ciao Metro, ci mancherai

Sinonimo di grande città, odiata, sfondo di numerosi film, il nostro rapporto con questo mezzo è destinato a cambiare.

01 Maggio 2020

Nel vagone della metropolitana, lui e lei siedono di fronte. Hanno continuato a guardarsi per due minuti e otto secondi, per provare a immaginarsi nella vita dell’altro superficialmente, partendo dal presupposto, del tutto arbitrario, che ci fosse un reciproco interesse. Lui e lei, e sicuramente altri, tanti, che hanno incrociato gli sguardi nella metro, ripetendo una scena analoga a quella da cui in Shame di Steve McQueen aveva origine la storia. Dal 9 marzo però, e già nella settimana precedente, la metropolitana di Milano ha iniziato a spogliarsi di tutti i suoi racconti, seguita da quella di Roma, di New York, Londra, Parigi. Lasciando le carrozze deserte, senza la stanchezza dei volti, le occhiate, voci di signore che rivelavano sintomi di incontinenza verbale – “vorrei fossero sempre così vuote” l’abbiamo detto i primi giorni. E ora, mentre ci apprestiamo a entrare nella fase 2 in cui ci è stato chiesto di guardare la metropolitana con sospetto, utilizzarla solo se strettamente necessario e con le dovute precauzioni, ci appare come l’ennesimo aspetto della nostra vita di prima che adesso, nel “dopo”, ci siamo trovati a riconsiderare.

Non che l’avessimo mai amata. Piuttosto odiata, a giorni alterni, è ed è stata semplicemente un’esigenza. Per quelli di noi che sono senza macchina, o che più di una volta, affidandosi al car sharing, hanno visto i propri occhiali da sole ancora sul cruscotto dell’Enjoy dopo aver già chiuso la portiera, ciao per sempre, meglio andare in metro. Per far fronte a questa necessità, che dalle prime settimane di lockdown in Lombardia è stata al centro del dibattito tra Regione e Comune di Milano – mezzi pubblici sì, mezzi pubblici no – e che a detta del ministro dei trasporti Paola De Micheli coinvolgerà oltre tre milioni di cittadini dal 4 maggio, si prova a porre delle regole per contenere una possibile nuova ondata di contagi, garantendo la sicurezza dei lavoratori e dei viaggiatori. Proposte, come quelle condivise da Legambiente ad aprile, tra controlli ai tornelli per evitare affollamenti, sanificazione, mascherine obbligatorie, orari ripensati. “I tempi saranno lunghi, logoranti”, ma dovremo rispettarli, ci persuadiamo, perché non è vero che in questo periodo abbiamo imparato ad aspettare. Intanto a New York, gli spostamenti in bici da marzo sono raddoppiati, dopo l’invito del sindaco De Blasio ad andare a piedi o a pedalare. «Prendete la metro se non potete farne a meno», ha ammonito anche il governatore Cuomo, mentre a Berlino si sono già attrezzati per allargare le piste ciclabili con nuove strisce laterali, come a Bogotá, a Vancouver, a Parigi. E a noi, che siamo sempre quelli con gli occhiali nell’Enjoy, pendolari, o con la bicicletta a cui dobbiamo fare ancora regolare il cambio, rimane un senso di languore.

Perché negli anni, la metropolitana è diventata una metafora della città stessa, in cui stare ammassati, in balia degli altri e senza tempo da perdere. Specchio dei centri urbani soprattutto in queste settimane, come a New York, che ha visto una riduzione di passeggeri dell’87 per cento da inizio marzo, e di cui il 30 aprile, per la terza volta nella storia della MTA (tra le poche al mondo funzionante 24 ore su 24), è stata indetta la chiusura dall’1 di notte alle 5 del mattino.

Meschina, cupa, occasionalmente teatro di aneddoti e connessioni, a noi che l’abbiamo sempre presa ha fornito il grande bestiario delle specie urbane contemporanee, che come cantava Battisti nella “Metro eccetera” del ’92 c’erano loro, con il capo sempre chino a guardare in basso, «i seduti di fronte, sono semplicemente gli avanzati dal viaggio precedente», gli orologi e i polsi in alto, poi lei che guarda fissa, «un sussulto fuso nel vetro», la folla che passa e sale. Secondo il libro International Express: New Yorkers on the 7 Train, sull’affollata linea della metropolitana nel Queens, si parlerebbero addirittura 80 lingue diverse.

Compressi, stipati fino all’ultimo respiro, a volte prendere la metropolitana ha comunque rappresentato un piacevole brandello di giornata che ci siamo dedicati prima di arrivare in ufficio, per continuare un libro, immaginare, ascoltare la nuova di Frank Ocean, sperando che anche gli altri viaggiatori provassero a rispettare quel contratto sociale di regole non scritte stipulato silenziosamente una volta passata la tessera dell’abbonamento al tornello: se la metro frena bruscamente (come accadeva spesso lo scorso anno) cerca di non cinturarti con presa d’acciaio alla persona davanti, trascinandola per terra. E di nuovo ritorna il languore, per tutti i nuovi comandamenti che, pensiamo, renderanno i vagoni grumi di psicosi collettive.

Sarà colpa delle pellicole, che la metropolitana l’hanno romanticizzata, soprattutto quella di New York (e che Vulture ha raccolto in un elenco di 20 titoli). Intesa come un luogo per fuggire, nei Guerrieri della notte che dovevano tornare a casa a Coney Island, e nell’inseguimento automobilistico lungo la metro nel Braccio violento della legge. E poi come generatore di destini, in Sliding doors con Gwyneth Paltrow, e degli amori nati sui vagoni raccontati nel 1997 in Tales From the Underground, antologia di cortometraggi della HBO basata su storie condivise dai viaggiatori. Anche io ne conosco una, nata grazie a un guasto tecnico sulla M5. Lei aveva un esame in Bicocca, lui, in piedi di fronte, l’abbonamento a un servizio di car sharing. Al matrimonio, hanno raccontato del loro incontro a tutti gli invitati. Ma le cose hanno già iniziato a cambiare, tanto che anche quello che è probabilmente il migliore profilo di Instagram, @subwayhands, che raccoglie le foto delle mani dei passeggeri sulla MTA di New York si è adattato alla situazione, mostrando guanti, distanziamenti, una o due persone al massimo.

Verso la metropolitana aumenterà la nostra diffidenza, come accaduto negli scorsi anni, in seguito agli attentati come quello di Londra nel 2005, anche se ora proveremo un timore diverso, forse anche più pervasivo. Useremo più spesso sintagmi come “a piedi” “in bici” “in taxi” quando spiegheremo in che modo torneremo a casa. E quando pioverà a dirotto – e sappiamo che dal 4 maggio pioverà a dirotto – e non potremo dire “a piedi”, “in bici” e magari per qualche motivo nemmeno “in taxi”, andremo semplicemente “in metro”. Lontanissimi gli uni dagli altri, consapevoli che per un po’ di tempo, almeno, non chiederemo: permesso.

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