Dopo quello del Leoncavallo è arrivato lo sgombero dell'Askatasuna: gli spazi autonomi sono sempre meno e in difficoltà. Ne abbiamo parlato con Valerio Mattioli, che all'importanza politica, sociale, culturale e storica dei centri sociali ha dedicato il suo nuovo libro, Novanta.
Metal Carter è una figura di culto del rap italiano. Conosciuto anche con il suo soprannome di “Sergente di Metallo”, è uno dei membri fondatori dei Truceboys insieme a Gel e Cole, a cui poi si aggiunse Noyz Narcos, con in quali ha raggiunto una certa notorietà negli ambienti del rap a partire dai primi anni del 2000, emergendo poi come una delle figure di spicco dell’allora importantissimo collettivo, Truceklan. Con il passare degli anni e dei dischi, è diventato una leggenda per tutti gli appassionati di rap italiano, che hanno riconosciuto in lui uno stile unico, dai primi dischi solisti, diventati dei classici, come La verità su Metal Carter (2005), Cosa avete fatto a Metal Carter? (2007) e Vendetta Privata (2008), passando per i mai dimenticati Dimensione Violenza (2014) e Cult Leader (2016), fino ad arrivare alle ultime pubblicazioni Fresh Kill (2020) Musica per vincenti (del 2022), Carter si è costruito una carriera e una credibilità in grado di attraversare le generazioni e il tempo.
Dopo oltre vent’anni di musica, ha deciso di raccontare la propria versione dei fatti, e per farlo si è affidato all’amico giornalista Riccardo Papacci, che insieme a lui ha firmato Cult Leader. L’autobiografia pubblicato da NERO Editions. La sua biografia attraversa non solo un pezzo fondamentale della storia recente della musica italiana – quella che ha gettato le basi per rendere il rap la musica attualmente più popolare in Italia – ma anche uno spaccato della Roma più underground all’inizio del 2000 e cosa significa essere diversi, coltivare le proprie passioni anche quando queste sembrano strane agli occhi di tutti, fino a farle diventare un motivo di identità e di orgoglio. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo, per parlare del libro, delle sue passioni, di film, di musica e di Roma.
ⓢ Come nasce l’idea dell’autobiografia e che effetto ti ha fatto mettere in fila la tua storia?
L’idea dell’autobiografia nasce da me e da Riccardo Papacci che da parecchio tempo scrive articoli per magazine, webzine e giornali. Mi sono reso conto che a questo punto della mia carriera c’era parecchio da raccontare, e volevo che questa storia rimanesse scritta e ricordata; penso infatti sia unica e particolare, perché coinvolge tutta la vera Roma hip hop anni 90 e primi 2000. Nel libro viene citata tutta la scena rap del tempo, perché comunque conoscevo tutti – magari non ne ero amico – ma molta meno gente si occupava del genere. Secondo me era importante mettere nero su bianco quel periodo per diversi motivi, è stato infatti un momento storico che è finito e che non ricapiterà più; per far capire ai più giovani com’era il rap prima; e infine per spiegare perchè Metal Carter affronta certi argomenti, come mai si pone in un certo modo. Infine, volevo chiarire certe cose poiché non sempre mi è stata data l’occasione di farlo, soprattutto considerato il fatto che il gruppo che ho fondato all’epoca, più il tempo passa, più acquista una fama leggendaria.
ⓢ Come è stato il passaggio dalla scrittura in versi a quella in prosa?
Il libro non l’ho scritto io nella pratica, mi vedevo con Riccardo Papacci e insieme abbiamo fatto una tracklist dei vari capitoli. Lui, essendo davvero mio fan, conosceva i dischi, le canzoni e, oltre ad essere un amico, era una persona preparata, pronta a farmi domande sul periodo storico. Abbiamo registrato delle cose, preso appunti e portato una prima stesura da NERO. È stato un lavoro estenuante, cinque anni di intesa lavorazione, discussioni e revisioni, perché l’idea iniziale era molto diversa da quello che poi è stato il risultato finale, ma sono comunque soddisfatto: quando è uscito l’ho letto e penso che si legga bene, è funzionale, avvincente e pieno di cose oggettivamente eclatanti.

ⓢ Nel corso del testo sono presenti parti di canzoni, come le avete scelte e selezionate?
A seconda del periodo storico. Al momento del mio primo album corrispondono citazioni da quel disco, e così via per i successivi. Abbiamo fatto una selezione per disco e, per i periodi prima in cui si parla dei prodotti fatti insieme al gruppo come “Sangue” o “Ministero dell’inferno”, ci sono delle mie strofe o dei feat. È stata una scelta fatta focalizzare al massimo l’attenzione sulle rime. Aggiungo che queste citazioni non sono state scelte direttamente da me, anzi, ho lasciato la palla alla redazione perché non volevo imporre il mio punto di vista: mi interessava invece un parere esterno sulle barre che più avevano colpito il pubblico. È importante capire come vedono gli altri le cose, magari tu sottovaluti una canzone che hai fatto, mentre per un altro è bellissima.
ⓢ Il libro parla di Roma, che è il grande sfondo attorno al quale ruota tutta la tua storia. Come è cambiata Roma? Ti piace ancora?
Parla molto di Roma, perché sono stato tanto per strada fin da bambino, l’ho vissuta a pieno, da quella dei locali a quella del pomeriggio e delle comitive. Il rap nasce in un contesto di strada e se io sono un rapper di Roma, non posso parlare della realtà di Palermo, ma di ciò che succede nella mia città, delle sue dinamiche e storie, personaggi e regole – scritte e non scritte. Non era possibile dividere Roma dal contesto. Io sono molto legato a Roma, ho avuto più volte possibilità di trasferirmi per questioni sentimentali e lavorative, ma non ho mai voluto. Sono nato e cresciuto qui e mi piace stare a Roma. La vedo cambiata perché ho un’altra età, prima la vivevo da 20enne o 30enne mentre adesso sono un uomo, quindi non mi accorgo magari di certe cose. Da quello che percepisco io c’è meno criminalità per strada, meno violenza di sicuro, e comunque anche il mio quartiere di origine (Primavalle), da quello che dicono tutti non ha paragone rispetto agli anni ‘90, quando io ero piccolo. Adesso ci arriva il capolinea della metro, prima era isolato, un posto dove la gente non aveva interesse ad andare, quindi personalmente la trovo migliorata. Non so se sia una mia percezione sbagliata, poi.
ⓢ Entrando nel tuo immaginario, una cosa che mi ha colpito molto è la tua passione per i video, che nasce dai B-movie e dall’horror e arriva poi ai video clip. Come è cambiato il tuo rapporto con i video? Per te sono ancora importanti? Come ti approcci?
Forse ne ho fatti talmente tanti e, in più, i tempi sono anche cambiati, che oggi sono poco attratto dai videoclip. Mi hanno stufato e, guardando anche al mercato, non hanno un gran peso. Prima il video era fondamentale per spingere l’album, ora non mi sembra più così, oppure si fanno street video, cose semplici, mentre ai tempi si investivano soldi, ora ti basta un cellulare. Il video che ho fatto di “Non Scherzo”, tratto da Fresh Kill, fatto con il telefono, è andato benissimo. Per quanto riguarda l’inizio della carriera, è sempre stata una mia fissa legata al cinema, mi piaceva fare i video; oltre ad essere una cosa utile a spingere i dischi, mi piaceva far visualizzare alla gente un certo immaginario. “Pagliaccio di Ghiaccio” è stato il primo videoclip virale di YouTube Italia, con 6 milioni di click totali – quando ancora non si monetizzavano – ma all’epoca nessuno faceva i videoclip, tranne quelli che poi passavano su MTV, quindi era una cosa innovativa e strana che un gruppo underground li girasse.

ⓢ Fuori dall’intervista parlavamo della grande pluralità di generi con cui tu sei stato a contatto, e quanto questi ti hanno influenzato. Credi che questa sia stata anche la tua forza?
Assolutamente si, sono stato influenzato da dieci rapper con cui collaboravo, da alcuni artisti che avevo di riferimento ma che non ho mai cercato di copiare, e poi dal cinema, dal metal, dal punk, dal blues, dal pop, e questo minestrone di influenze che ha creato il mio stile originale e vincente.
ⓢ Oltre alle tue fondamenta nel death metal.
La mia carriera, ma ti direi anche la mia vita, in particolare l’adolescenza, è segnata da questa fissa quasi morbosa per il death metal e gli horror movie. È ovvio che questo ha avuto delle ripercussioni: mi hanno segnato, ho parlato di quelle cose perchè mi appassionavano.
ⓢ Guardando ai tuoi dischi, la tua scrittura come è cambiata? Tu hai dei testi molto forti, truci appunto, e degli aspetti di affinamento che hai fatto possono non sembrare evidenti, eppure sono importanti.
Anche questo è stato un percorso molto naturale, come per le tematiche che possono risultare forti, ma non c’è assolutamente nulla di forzato, è il tipo di testo che io prediligo, ognuno ha le sue priorità espressive e io ho quello scelto lucidamente, preferendo questi temi ed escludendone altri per una mia priorità artistica. La scrittura è cambiata nel tempo, e anche io sono stupito di me stesso, perché il genere più è estremo più è difficile variarlo e più ti incanali più il rischio di ripetersi è alto, invece se ascolti il mio primo album e l’ultimo, sembrano fatti da due rapper diversi. Quello che mi da tanta soddisfazione è che sono riuscito a differenziare sempre ogni progetto: pur essendo sempre dei concept album, sono tutti molto diversi, le tematiche sono sempre viste da prospettive diverse, il beat è sempre diverso, l’unico filo conduttore a livello visivo è quello stile di copertina, che è un po’ il mio marchio di fabbrica, e questa cosa mi rende molto contento perché non è né facile né scontato. C’è sempre il rischio di ripetersi e di fare un disco uguale all’altro, e sarebbe una cosa che artisticamente mi deprimerebbe molto, dal momento che non mi piace essere ripetitivo con i fan. La scrittura è cambiata molto, se ascolti bene i miei ultimi album, il succo è un gangsta rap molto più classico, soprattutto in confronto alle prime cose che avevano sfumature molto più horror e dark, gli ultimi lavori sono meno romanzati e molto più street.

ⓢ Visto che ogni disco nasceva e nasce con un concept, il prossimo quale sarà? Verso che mondo stai andando?
No comment (ride).
ⓢ Vorrei commentare con te una citazione del libro: «Penso che esprimere la violenza in musica abbia esclusivamente effetti positivi, catartici, liberatori. Sarebbe molto peggio se nessuno ne parlasse. Se queste cose restassero sepolte dentro le persone, allora si che la violenza diventerebbe incontrollabile».
Penso sia una cosa vera al 100 per cento, e penso che sia valida per qualsiasi forma espressiva: tu non guardi Terminator e dopo esci per strada a sparare alla gente, è intrattenimento e arte. Poi, è vero, è anche qualcosa in più, è uno stile di vita e tanto altro, ma anche nel gangsta rap americano più vero con cui sono nato io, raramente la violenza sfociava in episodi reali – a parte adesso i ragazzini che fanno drill.
Per le foto in questo articolo ringraziamo NERO Editions.
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