La fine di internet al Met Gala

La grande mostra al Met di New York, Superfine: Tailoring Black Style, era dedicata allo stile dei dandy afroamericani e agli abiti come affermazione di sé. Un tema che sembra il punto più alto di tante discussioni avviate negli anni scorsi, ma che oggi è solo l’ennesimo scroll.

06 Maggio 2025

Qualcuno si ricorda l’appropriazione culturale? Forse no. È stato l’ultimo picco raggiunto dai Millennial online (ma di certo non l’ultima crisi economica) prima di cedere le chiavi della baracca alla Generazione Z, alla Generazione Alpha e ai bombardiro crocodilo, qualunque cosa essi siano. In eredità alle sfortunate generazioni che ci hanno succeduto, abbiamo lasciato soltanto l’ipertrofia da meme, in realtà già morti da molti anni ma ancora spremibili in un’internet che è diventata il contrario di tutto quello che avevamo immaginato: ridondante, piena di falsità e orrori estetici, appiccicosa e prima responsabile dell’istupidimento generalizzato. Recentemente Jia Tolentino ha scritto sul New Yorker un saggio sul come il suo cervello abbia infine ceduto alla tossicità dello scrolling infinito: non si può accettare un mondo dove il presidente degli Stati Uniti posta immagini memificate di sé e i genocidi avvengono nella timeline, un mondo dove l’AI che doveva salvarci tutti è impegnata nelle più triviali e inutili campagne di avvicinamento alla massa e un mondo dove nessuno legge più nulla, soprattutto i giornali. Ha scritto la giornalista Terry Nguyn su X che «un pezzo di Jia Tolentino non colpisce più come una volta, e l’era in cui i media davvero catturavano lo Zeitgeist è davvero finita», lamentandosi di com’è che si siano accorti tutti solo ora che internet è pieno di schifezze. Lo è sempre stato, ma sono le nostre proiezioni sul suo possibile impatto sulla società a essere drasticamente cambiate e niente lo dimostra meglio, in questo regno dell’assurdo, del Met Gala.

Quest’anno la grande mostra del Costume Institute del Metropolitan Art Museum di New York si intitola Superfine: Tailoring Black Style ed è co-curata dal solito Andrew Bolton, con l’ausilio di Monica Miller, Professoressa e responsabile degli African Studies presso il Barnard College della Columbia University e autrice di Slaves to Fashion: Black Dandyism and the Styling of Black Diasporic Identity, testo del 2009 che è servito da punto di partenza per la retrospettiva. L’idea era quella di raccontare come gli schiavi della tratta si siano liberati dalla schiavitù anche attraverso i vestiti, fino a conquistare i propri diritti come membri di una società in cui erano arrivati, letteralmente, come possedimenti dei bianchi ricchi.

La ri-appropriazione degli abiti tipici dei gentleman europei, ma personalizzati (e migliorati) fino ad allontanarsi di molto dalla loro versione “originale”, è allo stesso tempo una presa di coscienza della propria storia e una rivendicazione, come spiega la stessa Miller sul canale Youtube del Met: «Una volta che ne conosci la storia, vedrai che i dandy neri, e più in generale il “dandysmo” nero, sono ovunque». La mostra utilizza capi, accessori, fotografie, dipinti, sia del passato che contemporanei, per raccontare quella che è prima di ogni cosa un’attitudine – nata in precise circostanze storiche – che accompagna e definisce ancora oggi la comunità afroamericana, nel percorso «da schiavi a trendsetter globali». Superfine: Tailoring Black Style ha ovviamente i suoi dandy di riferimento: l’ex direttore artistico di Vogue Us André Leon Talley, la cui triste parabola (schiacciato a abbandonato dal sistema) non può cancellarne l’eccezionale caratura intellettuale, Prince e Dapper Dan tra gli altri.

Le loro storie, e il fatto che il Met finalmente le celebrasse (è la seconda mostra dedicata al menswear nella storia del museo dopo Bravehearts: Men in Skirts del 2003, e la prima esplicitamente dedicata alla storia afroamericana) sono sembrate a molti un segno di speranza, quasi, soprattutto in un momento in cui il discorso sugli uomini è dominato dalla monosphere e i suoi prodotti mostruosi. Finalmente le celebrity invitate al red carpet più commentato dell’anno non potranno presentarsi con uno smoking nero, ma dovranno impegnarsi un po’ di più, soprattutto i “maschi”, capitanati dagli host Lewis Hamilton, Pharrell, Colman Domingo e Asap Rocky, quattro degli uomini più influenti al mondo quando si tratta di stile. Il tema, però, era scivoloso, e solo qualche anno fa le antenne anti-appropriazione culturale sarebbero impazzite: «Vedrai che qualcuno si presenterà con un durag in testa e dovremmo spiegare che ok, forse non ce n’era bisogno» aveva scherzato Brittany Luse, host di It’s Been a Minute, il podcast di NPR News, con i suoi ospiti Shelton Boyd-Griffith e Antoine Gregory, e in effetti qualcuno il durag se l’è pure messo, ma non si sono registrate particolari indignazioni, o almeno nulla di lontanamente paragonabile a quello che sarebbe successo nel 2018 o giù di lì.

Oggi nella timeline tutto scorre e tutto si scioglie, e l’unica cosa davvero rilevante è constatare come le battaglie scompigliate di quegli anni, e soprattutto i loro estremismi, ci abbiano consegnato la versione peggiore del dibattito: pigro, intrappolato in un sarcasmo fine a sé stesso, incapace di concentrazione perché, beh, non sappiamo più concentrarci. Sto esagerando, ma lasciatemelo fare: nel 2017 l’arrivo di Dapper Dan nel discorso mainstream sembrava davvero l’occasione per farsi delle domande sul modo in cui sottoculture, moda istituzionale e tendenze si univano. Mi fa quasi tenerezza a scriverlo, o ripensare a quanto ci credevamo, noi povere creature. Ben venga allora che oggi ci si faccia una risata di fronte all’acchittamento di un famoso, e ben venga che gli atteggiamenti più cretini di quelle discussioni siano stati dileggiati e superati, ma nel dileggio continuo qualcosa si è perso, soprattutto online. Sarà stata la pandemia, saranno state le nuove attitudini generazionali, sarà forse la fine del mondo, ma internet è sempre più stanco e neanche il Met Gala riesce a regalarci un meme che faccia ridere, o qualcosa che ci interessi davvero. La mostra, almeno, sembrava riuscita: fortunato chi potrà vederla, con il telefono staccato.

In apertura: Colman Domingo, Anna Wintour e Lewis Hamilton. Photo by Mike Coppola/MG25/Getty Images for The Met Museum/Vogue

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