Anzi, vuole tornare al passato.
In una nuova estate in cui si annaspa già all’ultimo collegio docenti, in grosse aule bollenti e raffrescate solo da una coreografia di ventagli, l’anno scolastico si chiude con due novità insolite per i maturandi: dentro, le rivoluzionarie scene mute all’orale, fuori, davanti ai cancelli, festeggiamenti goliardici tra coccarde e mazzi di fiori.
Negli anni abbiamo assistito a una crescente feticizzazione dei riti dello studio: corone di alloro, dediche infinite per una tesi compilativa, gli zainetti con i loghi delle università, neanche il Covid e la minaccia del lanciafiamme di De Luca erano riusciti a fermare il bisogno di celebrare un titolo di studio, ormai alla portata di tutti e che vale sempre meno. Adesso la smania dei festeggiamenti ha contagiato anche gli esami di maturità. I gavettoni, i falò con il vocabolario di greco, e altri riti che devono esorcizzare cinque anni di studio coatto pare stiano seguendo un protocollo più formale e soprattutto social. Anche qui mazzi di fiori, bottiglie di champagne, e soprattutto reel e caroselli su Instagram dove però a postare sono i genitori: Matteo Renzi, dopo aver citato Montale, ci fa sapere che la figlia ha lasciato il liceo classico con «un 100 strameritato». Su Tiktok compaiono sfumature più trash e melodrammatiche, niente endecasillabi, ma scenografie di fiori, papà con il vestito della domenica, la nonna che rischia di scivolare sui gradini dell’ingresso, maturando in completo Zara, sottofondo strappalacrime: “Love You In The Dark” di Adele.
Scena muta
«Cartelloni, fiori, fotografie. Ma l’esame non è una passerella è un momento valutativo che richiede serietà, concentrazione e senso critico», ha dichiarato la dirigente scolastica di un istituto tecnico in provincia di Lecce. La preside, finiti gli esami in qualità di presidente di commissione esterna, si è vista recapitare una lettera di una maturanda (votazione 98/100) la quale lamentava di essere stata umiliata dalla presidente durante il suo esame. Le lettere recriminatorie sono diventate un trend: dopo il carosello con i fiori e i parenti, adesso compare anche una nota iPhone dove gli studenti sfogano pubblicamente il proprio risentimento verso il docente preso di mira. Ad aprire la strada ai maturandi giacobini è stato Gianmaria Favaretto, lo studente di Padova che si è rifiutato di parlare all’orale. A conti fatti, tra crediti formativi e voti degli scritti aveva già il minimo per essere promosso. Inutile scandalizzarsi per la prova comunque superata – certo, sono tempi duri per le commissioni d’esame – o si finisce per non capire la giocata dello studente: «Non credo nei voti, troppo agonismo».
Il gesto è stato divisivo ma, al netto di una certa arroganza – parlare almeno per rispetto di chi ha letto e corretto i tuoi scritti – e un sospetto di mitomania, la questione sollevata dallo studente non è da sottovalutare.
La scuola ormai si ammanta di costanti aggiornamenti, rincorre circolari ministeriali e direttive europee, impartisce compiti precisi alle proprie funzioni strumentali, con l’unico obiettivo di avere le carte in regole, ma poi di fatto continua a essere nozionistica e a perseguire la retorica del merito. Sono vent’anni che si parla ormai di competenze eppure ogni anno non si sa mai bene come valutarle, diventano un’incombenza dell’ultimo minuto di scrutinio. Si immagina una scuola senza voti, e alcuni istituti particolarmente aperti al cambiamento hanno sperimentato in questa direzione con classi pilota. I risultati, però, non sono stati sempre incoraggianti: spesso erano gli studenti a chiedere di essere valutati con un numero, troppo disorientati per orientarsi tra giudizi descrittivi.
Cambiare, prima o poi
Cambiare una cultura fondata sul rendimento non è qualcosa che può avvenire dall’oggi al domani. Con l’eccezione di molti insegnanti capaci e appassionati – verrebbe quasi da rimpiangere il “docente esperto” immaginato da Draghi – chi lavora a scuola, prima o poi, si rassegna a usare il quattro come strumento di controllo per mantenere le distanze. Ma la valutazione è attività complessa che richiede trasparenza verso gli studenti – griglie, autovalutazione – e che deve concentrarsi sul percorso di apprendimento piuttosto che sul prodotto finale.
Chissà che con l’avvento dell’intelligenza artificiale non si sarà costretti a cambiare qualcosa. Varrebbe la pena ripensare la didattica, ad esempio, piuttosto che utilizzare strumenti per rilevare la percentuale di testo generato da un algoritmo: più scrittura in classe, meno compiti a casa, più attività laboratoriali. Certo, le scuole intanto si stanno attrezzando, molti fondi del Pnrr sono stati spesi per sovvenzionare corsi di formazione sull’AI e progetti di attività Stem. Per cui non è raro incappare in una scuola di periferia, edificio anni Sessanta, con i corridoi inagibili alle prime piogge ma con una lavagna immersiva nel laboratorio di scienze.
Il silenzio durante gli ultimi esami di maturità è un po’ l’elefante nella stanza di un sistema scolastico che fatica da sempre, per sua natura, e che nello sforzo di restare aggiornato continua però a insistere su criteri nozionistici, valutazioni che forse piacciono solo ai nostalgici, a quelli che, finito l’orale, si saranno incamminati verso casa in solitudine. Senza reel, senza applausi, senza nemmeno un gavettone.