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Il Martini è morto, viva il Martini
È stato il drink simbolo del Novecento, amato dalle star, protagonista di libri e film: ora lo si ordina sempre meno, ma per i cultori il suo mito resta intatto.
Nel 1956, un giovane turista statunitense entrò all’Harry’s Bar di Venezia e fu colpito dalla maestria con cui i barman dell’epoca miscelavano Martini per gli avventori. Quel ragazzo era Edmund Lowell, oggi docente di cultura classica alla Rutgers University. Ma tra gli appassionati di cocktail Lowell è ricordato soprattutto per essere l’autore di Martini, Straight Up, fra i tanti testi dedicati a questo drink forse quello più storicamente accurato, che nell’edizione italiana ormai introvabile vanta una prefazione firmata da Umberto Eco. Nel 1990 Lowell prese a insegnare come professore a contratto alla Ca’ Foscari. Tornò all’Harry’s Bar e volle rivivere l’emozione di farsi servire quel Martini. Fu raggelato – è il caso di dirlo – quando vide il barman estrarre dal congelatore una bottiglia con un Martini preparato in precedenza che poi venne versato in un bicchiere da shot ricoperto di ghiaccio del freezer. «E me lo fecero pagare l’equivalente di 8 dollari dell’epoca», chiosa Lowell.
Che l’inizio della decadenza del Martini cocktail coincida proprio con questa disavventura raccontata da Lowell? Oggi infatti il Martini è sempre meno ordinato nei locali di tutto il mondo. Negli Stati Uniti in particolare, dove il cocktail si è affermato come icona, sono ormai il Long Island Ice Tea e il Moscow Mule a dominare le classifiche. In Italia, lo spritz – complice anche l’enorme investimento mediatico fatto dalla Campari – è il nuovo simbolo dell’aperitivo, soprattutto nelle fasce più giovani. Il Martini cocktail è una cosa seria. Robert Simonson, giornalista del New York Times, lo definisce «la bistecca al sangue del bere americano». Nell’introduzione al suo The Martini Cocktail, Simonson ricorda quella volta in cui chiese a suo padre perché bevesse solo Martini e nient’altro che Martini. «Ha un sapore unico», fu la risposta. «Il primo sorso ti dà proprio una scossa. Ti costringe a prestargli attenzione.» Questa è invece l’epoca delle serie tv viste mentre si chatta su Whatsapp. Non stupisce che a un cocktail che “ti costringe a prestargli attenzione” venga preferita l’immediatezza di uno spritz o di un gin tonic, sorseggiati distrattamente mentre si fa scorrere il dito su TikTok. Il Martini, invece, non tollera il multitasking. Quando bevi un Martini, bevi un Martini. Perché il Martini è semplice, ma non è facile.
Nel farlo, più della bravura conta la conoscenza delle trappole disseminate lungo il percorso della preparazione: esagerare con il vermouth, non freddare la coppetta prima di versarlo, mescolarlo troppo a lungo oppure – orrore! – shakerarlo, per colpa di quella nefasta battuta di James Bond il quale – fin dal romanzo Diamonds are forever del 1956 – quando ordinava un Martini specificava «Shaken, not stirred» (agitato, non mescolato) ottenendo l’unico effetto di farsi servire un cocktail torbido. Non parliamo poi dell’equivoco generato dall’omonimia tra il cocktail e il vermouth. Entrambi si chiamano Martini e questo può creare confusione e imbarazzanti errori di ordinazione quando si ha a che fare con avventori o barman con poca esperienza nel mondo dei drink. Il Martini sta dunque diventando un cocktail di nicchia e i suoi estimatori, inevitabilmente, si sentono parte di un club esclusivo. Nella bolla dei bevitori di questo cocktail ci si tramandano aneddoti, citazioni e trucchi del mestiere. Per far capire quanto poco vermouth serve per preparare un perfetto Martini cocktail viene spesso citata una battuta di Hemingway: «Verso il gin fissando intensamente una bottiglia di vermouth. È più che sufficiente.» Salvo scoprire che questa battuta viene attribuita anche a Churchill. Il mondo del Martini cocktail, in fondo, è questa cosa qui. Una teocrazia in cui tutti sono convinti di possedere la verità. Le dosi, la temperatura, la guarnizione. Guerre di secessione tra il fronte dell’oliva e quello della scorza di limone.
Per Bernard DeVoto sia oliva che scorza sono di troppo. Al pari di Lowell, DeVoto era uno studioso di storia, ma anche nel suo caso gli amanti del bere lo ricordano, più che per i suoi saggi, per un opuscolo uscito nel 1948 e dedicato ai cocktail, The Hour. In questo affilato pamphlet, DeVoto mette in guardia contro tutto ciò che minaccia le sane e giuste abitudini del bere. «Un Martini è fatto di gin e vermouth. Lo ripeto: un Martini è fatto di gin e vermouth», scrive nel capitolo dall’esplicito titolo “Per ribelli e sprovveduti”. «Ogni sottocultura crea le sue mitologie», sostiene Stefano Gallerani, scrittore e appassionato di storia dei cocktail. Il suo account Instagram, @bustofredon, è un magnifico campionario fotografico di drink di ogni tipo. «È vero però che solo gli amanti del Martini riescono a essere così pedanti.» Una pedanteria che rinforza l’aura mitica di questo cocktail, ma dal punto di vista pratico non ha una vera ragion d’essere. «Il bere miscelato è come il jazz. Esistono degli standard, ma ognuno poi ci improvvisa sopra.» E sul gin Gallerani si fa pochi scrupoli. «Tutta questa ossessione per le botaniche. Conosco gente che si distilla il gin con erbe coltivate a casa. Ne varrà la pena? Alla fine il gin è il punk dei superalcolici. Un punk elegante, come Vivienne Westwood, ma pur sempre punk». Quanto al rischio che il Martini finisca nel dimenticatoio Gallerani rassicura: «È un long seller. Si berrà sempre.»
Secondo Carolina Cutolo è la fama, non certo la grandezza del Martini a essere in declino. Cutolo ha curato per l’editore Nutrimenti Martini Eden, antologia di racconti di scrittori italiani dedicati al celebre cocktail. «Non penso che scomparirà mai – dichiara – come non scompariranno mai il fascino di Cary Grant o la grazia di Ingrid Bergman. Il Martini è un classico. Ci sarà sempre qualcuno che viaggiando nel passato in cerca di tesori se ne innamorerà come fosse la prima volta. La cultura del bere, come la cultura in generale, è fatta di classici intramontabili che sembra siano sempre esistiti, di novità mainstream destinate a un rapido oblio, di obbrobri pacchiani dalla fama incredibilmente longeva e di avanguardie incomprese che si trasformeranno in grandi classici, quindi forse la vera domanda che dovremmo porci è: qual è oggi il nuovo cocktail Martini?». Che la cultura del Martini venga offuscata dalle nuove mode del bere è comunque un rischio che corrono più i consumatori che i barman. «Chi lavora dietro un bancone è addestrato a riconoscere da uno sguardo che tipo di avventore ha davanti – racconta Cutolo, che si è formata all’Aibes (Associazione italiana barman e sostenitori) e ha lavorato per dieci anni come bartender – chi ordina un Martini cocktail spesso è proprio alla ricerca di un segnale di complicità e ammirazione da parte del barman».
Forse per il Martini cocktail vale lo stesso discorso che per l’alta fedeltà. Solo gli audiofili dicono di riuscire a cogliere le differenti sfumature di suono tra un impianto hi-fi e l’altro. Così, solo un bevitore esperto può riuscire davvero ad apprezzare le diversità di gusto tra vari mix. Su questo Lucio Tucci non ha dubbi: «Il Martini è un cocktail per intenditori». Tucci è l’autore di un libro pubblicato da Hoepli, L’ora dell’Americano, dedicato a un altro cocktail storico. Il suo account Instagram, @drinksmixworld, offre una meravigliosa rassegna di immagini vintage dedicate al mondo del bere. «Per esperienza posso dire che è vero – racconta Tucci – il Martini ormai viene ordinato molto raramente. I cambiamenti nell’offerta dei cocktail hanno portato inevitabilmente a dei cambiamenti nel gusto dei consumatori: nuovi drink, nuovi prodotti, nuove mode. Senza parlare poi del fatto che per apprezzare pienamente la qualità di un Martini cocktail serve un palato con una certa esperienza.»
Ma da dove arriva il Martini cocktail? La leggenda vuole che nel 1860 un viaggiatore senza nome entrò all’Occidental Hotel di San Francisco e chiese al barman di preparargli qualcosa che non avesse ancora bevuto nessuno. «Dove sei diretto?», gli chiese quello. «A Martinez.», fu la risposta. Il barman rifletté qualche secondo, poi miscelò gin e vermouth con ghiaccio e li versò in una coppetta. «Eccoti servito, straniero.» E Martini fu. È una storia così spudoratamente falsa che è difficile non volerle un po’ di bene. E poi si trova in qualunque libro dedicato al bere miscelato, in un’infinità di varianti, tante quanti sono i vangeli apocrifi che raccontano la vita di Gesù. A dispetto della fumosità delle sue origini, il Martini ha a che fare più con la storia che con la leggenda. Soprattutto negli Stati Uniti, dove per decenni è stato il cocktail per antonomasia fino al recente appannamento della sua fama, il Martini è stato un’antenna che ha recepito e diffuso i cambiamenti di costume. A partire dalla nascita registrata alla fine dell’800, fino al picco della sua gloria negli anni ‘60, il Martini è diventato via via più secco. La formula del drink morbido delle origini, con la sua prevalenza di note amabili e setose portate dai vermouth italiani e dal curaçao, si cristallizzò in una limpida miscela di austera glacialità. Non era solo una questione di gusto, ma di posizionamento. Il successo del Martini stava proprio nell’essere complesso nella sua semplicità.
È stato il cocktail delle celebrità. Oltre a Hemingway e Churchill, nel novero degli estimatori famosi ci sono Alfred Hitchcock, Mae West, William Somerset Maugham. Il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, viaggiava sempre con un kit per il Martini. Su YouTube c’è un video del regista Luis Buñuel che si miscela un Martini cocktail. A giudicare dalle immagini sa quel che sta facendo. All’epoca del suo massimo splendore, il Martini cocktail era una silenziosa presenza in tante pellicole di quel periodo. Su tutte, vale la pena ricordare una scena di un classico di Hollywood: Il padre della sposa di Vincente Minnelli. Anno di grazia 1950, Spencer Tracy e Elizabeth Taylor all’apice della loro fama. È la scena in cui il personaggio interpretato da Spencer Tracy e sua moglie vanno a trovare i futuri consuoceri. Per spezzare la tensione, il padre dello sposo serve un Madera invecchiato. Dopo alcuni imbarazzati scambi di battute, Tracy confessa che era molto agitato all’idea di quell’incontro e per calmarsi, prima di uscire, si era fatto tre Martini. «Le piace il Martini?», chiede il consuocero, eccitato all’idea di aver trovato un nuovo compagno di bevute. «Ma allora cosa stiamo qui a perdere tempo!». E pronunciate queste parole scorta un incuriosito Spencer Tracy in un’altra zona del soggiorno dove, con eleganza, dischiude un mobiletto bar facendo apparire tutto l’occorrente per miscelare un perfetto Martini. Ecco, quella era un’epoca in cui perfino un Madera invecchiato, tenuto in serbo per le occasioni speciali, non era che una “perdita di tempo” rispetto al re dei cocktail.