Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
«Mia nonna era un’attrice, ha lavorato in oltre sessanta film con registi come Monicelli e Steno, ma la sua più grande ispirazione per me non è stata la carriera: è stata la scelta di abbandonare tutto per viaggiare con l’uomo che amava per trent’anni. Quella libertà è diventata il mio faro». Forse è anche da lì che Margherita Vicario ha ereditato la capacità di dare valore a ciò che conta davvero. Così, dopo i tanti premi tra David di Donatello e Nastri d’Argento che l’hanno imposta come esordiente più celebrata dell’anno, non sembra avvertire troppo il peso delle aspettative.
Il tuo percorso artistico abbraccia molte identità: attrice per il grande pubblico, cantautrice indipendente poi approdata a una major, e ora regista. In quale di queste vesti ti riconosci di più quando ti presenti?
Sulla carta d’identità sta diventando complicato! Spesso mi presento ancora come “cantautrice”, perché credo che, in un certo senso, anche il mio film lo sia: nasce da un’idea autoriale e dal controllo dei dettagli, proprio come una canzone. Per me la regia è stata un’estensione naturale di quel tipo di sguardo.
Il tuo approdo alla regia però è arrivato solo in questa fase della tua vita. Per una giovane donna under 40, l’accesso alla regia resta più complesso di quello ai palchi musicali o ai set come attrice?
Personalmente credo di essere arrivata al cinema nel momento giusto, a 35 anni, con l’energia necessaria e la maturità sufficiente. Mi piace costruire le cose con lentezza per farle durare. L’industria troppo spesso accende i talenti in fretta e con la stessa rapidità li consuma. Non credo che la questione sia soltanto di genere, quanto piuttosto di trovare chi sappia scommettere su un progetto. Come sempre nella vita, molto dipende dagli incontri: i miei produttori hanno creduto davvero in me. I veri produttori non scelgono la strada più sicura, si assumono dei rischi. Certo, esiste ancora il pregiudizio secondo cui una donna non sia in grado di reggere un film da milioni di euro, con la pressione che comporta. Uno dei miei produttori però è Carlo Cresto-Dina di Tempesta Film, che ha prodotto quattro film di Alice Rohrwacher, la più grande autrice che abbiamo in Italia.
Il tuo debutto registico con Gloria! è stato travolgente: sei partita dal concorso della Berlinale fino ad arrivare a una pioggia di premi, dai David di Donatello ai Nastri d’Argento. Come si vive un ingresso nel mondo della regia da “esordiente che vince tutto”?
È stata una bellissima sorpresa. Mi sono impegnata al massimo per realizzare questo film, senza pensare a quello che sarebbe venuto dopo. Certo, nei sogni più nascosti immagini che il tuo film piaccia, che ti faccia viaggiare, ma quando lo stai facendo sei concentrata solo sul realizzarlo al meglio. Ero già consapevole che avere l’opportunità di girare un primo film fosse un piccolo miracolo, quindi non pensavo alle conseguenze. Quando mi hanno detto che saremmo andati in concorso a Berlino, per me era già il massimo. Tutto quello che è arrivato dopo – i premi, i festival, il pubblico – è stato straordinario e mi ha reso felice. Porto con me questa esperienza anche adesso sono in una fase di grande fermento: non vedo l’ora di girarne un altro.
Il tuo film d’esordio è un unicum nel panorama italiano: un film musicale in costume. Questa fusione tra cinema e musica era un obiettivo preciso fin dall’inizio o è nata lavorando alla storia di Gloria!?
La musica per me è il fondamento di tutto. È la mia ricerca, e voglio continuare su questa strada che ho intrapreso in un senso differente. Io nasco come attrice e ho lavorato molto in televisione, sviluppando parallelamente la mia carriera da cantautrice. Tuttavia il mio obiettivo, da sempre, era realizzare un film musicale, perché per me la musica ha una dimensione intrinsecamente visiva. La sceneggiatura, che ho scritto insieme ad Anita Rivaroli, l’ho stesa a partire da intuizioni musicali. Per dire: i giochi che la protagonista Teresa fa al pianoforte sono gli stessi che facevo io da ragazza, infatti nel film le mani che suonano in quella scena sono le mie. Nel mio film ho sempre cercato di dare immagini alla musica, non il contrario: nello sviluppare Gloria! sono partita da brani che avevo scritto per il film o da capolavori di Vivaldi.
Sei cresciuta in una famiglia di professionisti dello spettacolo. Aver respirato quest’aria fin da bambina e avere un cognome riconosciuto nel settore, lo hai vissuto più come un peso o come un vantaggio che ti ha aiutato a capire a cosa andavi incontro?
Non credo di avere un cognome ingombrante: è conosciuto tra gli addetti ai lavori, che mi accolgono con un sorriso perché mio padre e mio zio sono professionisti stimati. Non ho mai percepito però ombre o pressioni. Credo anzi di essere arrivata a un cinema non commerciale soprattutto grazie al percorso musicale, più che ai quindici anni di televisione generalista. Le serie tv comunque sono state una scuola preziosa: mi hanno insegnato come funziona un set, a innamorarmi di quell’ingranaggio e a capire che l’attore è solo una parte di un processo più grande. Ma è stata la libertà che ho sempre avuto nella musica a diventare il mio vero biglietto da visita.
Hai rivendicato più volte l’etichetta indie per descrivere il tuo film. Cosa significa per te?
Per me “indie” vuol dire autenticità. Significa delegare tutto all’idea, lasciando che sia lei a convincere gli altri e a guidarti. Non voglio fare le cose tanto per farle: ogni opera, che sia una canzone o un film, deve avere un motivo di esistere, essere specchio del suo tempo. Indie, per me, vuol dire questo: autenticità e unicità non intese in senso elitario, ma orizzontale. È riversare la propria singolarità in ciò che crei.
Nel passaggio dall’essere attrice sul set a dirigere la macchina da presa, cosa ti ha sorpreso di più?
Quando parlo di Gloria! e dico che “mi sono fatta aiutare”, intendo che ho imparato a delegare per sopravvivere e crescere. Il lavoro del regista è avere un’idea chiara, anche se intangibile, e riuscire a comunicarla in modo persuasivo a tutte le maestranze, che sono quelle che poi fanno effettivamente il film. Quello che ho imparato sul set è che il cinema è un dialogo. Devo essere bravissima a far capire la mia visione, ma l’artisticità di ogni collaboratore può darmi indietro qualcosa a cui non avevo pensato. Le maestranze sono la cosa più importante in un’opera prima, il successo del film dipende anche da loro. Un attore per esempio può regalarti qualcosa di inaspettato: il modo in cui Carlotta Gamba ha interpretato Lucia mi è piaciuto più di come me l’ero immaginato io. E poi non posso non citare il mio direttore della fotografia, Gianluca Palma.
A proposito di cast, hai scelto tanti colleghi musicisti da affiancare alle giovani interpreti protagoniste.
Ho scritto il personaggio di Bettina pensando a Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista, perché volevo usare la sua canzone “Questo corpo” e riportarla indietro di tre secoli. Con Elio e Paolo Rossi, invece, l’idea era portare eccellenze del pop italiano in un mondo settecentesco, creando un cortocircuito. Per un pubblico estero magari non significano nulla, ma per noi è un gioco di rimandi. Le altre attrici sono bravissime professioniste. Ho avuto totale libertà e ho cercato volti e voci che fossero “pittorici”.
Ai David di Donatello hai parlato della necessità di investire di più nella cultura. Al di là delle risorse economiche, cosa potrebbe facilitare davvero il ricambio generazionale nel cinema italiano?
Innanzitutto ci tengo a dire che non ridurrei l’intera domanda che mi fai a una mera questione di genere, anche se la rappresentanza femminile conta: se ci sono poche registe, una ragazza può sentirsi meno incoraggiata. Ma la difficoltà di fare un’opera prima riguarda tutti, uomini e donne. Credo che in Italia i soldi per fare i film alla fine ci siano: il problema è un sistema produttivo poco coraggioso. Servono produttori che rischino, che siano anche consiglieri ed editor, che abbiano intuizione e credano in storie originali. Oggi si fanno troppi film su casi di cronaca, penso che ci vorrebbe più fantasia.
Prima accennavi che stai pensando a un secondo film. Senti la pressione dell’opera seconda, soprattutto dopo il successo della prima?
La sento, eccome, ma è una pressione interna. Anche con Gloria! non sognavo il red carpet, volevo solo portare a termine il film nel modo migliore. Ora temo soprattutto di non trovare un’idea di cui essere sicura al cento per cento. Gloria! ha funzionato perché ero certa di quello che raccontavo. Farò un secondo film solo se avrò di nuovo quella sicurezza. Una delusione per un’opera in cui credevi è un conto; fallire perché non avevi il controllo è un altro. Poi si sa: il secondo film è sempre peggio del primo, quindi questo risultato lo do per scontato!
Nata a Mestia, al confine con la Russia, trasferitasi a Palermo, Jorjoliani scrive in italiano per raccontare il suo Paese, la Georgia. L'abbiamo incontrata e con lei abbiamo parlato di radici, folklore, traduzioni, Stalin e turistificazione.
