Stili di vita | Dal numero

Mangiare virtuale

Dalla spesa online alle ghost kitchen: come il mondo del cibo, la materia per eccellenza, sta diventando sempre meno fisico.

di Davide Coppo

Fotografie di Sara Scanderebech dal numero 50 di Rivista Studio realizzate nella cucina di Immorale Osé, ristorante milanese in via Tadino (Porta Venezia) aperto da Luca Leone Zampa, già chef e fondatore di Immorale (via Lecco, a due passi).

L’ultima volta che ho sentito parlare di The Sims è perché ci stavo giocando, ero ancora in età da liceo e la connessione internet di casa saltava se qualcuno telefonava sul fisso. Questo dice molto solo del fatto che per quanto uno si sforzi di rimanere sul pezzo, l’avanzamento del morbo boomer è irreversibile, e d’altra parte prima di questo modo di dire qui si chiamava semplicemente vecchiaia. L’ho ritrovato leggendo un articolo del New York Times di febbraio 2022 che dice che «The Sims è diventato il posto più pazzesco di internet per mangiare». Ci ho messo un po’ per notare la seconda dissonanza, che è nascosta ma molto più forte della prima. La prima è la semplice scoperta che The Sims esiste ancora e, dal lockdown di marzo 2020, ha conosciuto una nuova vita: Electronic Arts ha dichiarato che solo nel 2021 il gioco ha accumulato un miliardo e mezzo di ore giocate. La seconda è che, per quanto ne sapevo io, su internet non si poteva mangiare. Invece sì: la twitcher 22enne Kayla su The Sims alleva mucche e polli, ha fatto corsi di cucina e ha imparato a coltivare. Soprattutto, dice, ha mangiato piatti che altrimenti non sarebbe mai riuscita a mangiare: yakisoba di manzo, feijoada, oppure bhel puri. Naturalmente Kayla Sims da Oviedo, Florida non ha mangiato davvero quella zuppa di fagioli e frattaglie di porco. L’ha mangiata virtualmente. È così diverso da farlo realmente? Sì, certo, mi verrebbe da dire. Ma alzare le spalle e pensare a quanto sia una scemenza, questa cosa del mangiare senza materia, è in realtà un guardare dall’altra parte. Il mondo del cibo, la materia per eccellenza, sta diventando sempre più virtuale.

Come saranno le abitudini e i gesti comuni nel mondo postpandemico (esisterà mai? Diciamo: post-lockdown) nel 2022 riusciamo a prevederlo ancora soltanto in parte, e questo è spaventoso ed eccitante allo stesso tempo. Tuttavia alcune forme, all’orizzonte, si distinguono nella caligine. Che i ristoranti non saranno più come li abbiamo sempre conosciuti, per esempio. In che senso? Il delivery, in un modo o nell’altro, è destinato a cambiare non solo il modo in cui mangiamo, ma anche l’essenza stessa del concetto di mangiare “fuori”. In questo caso i contorni all’orizzonte sono ancora troppo sfumati, e la cosa potrebbe risolversi in una fragorosa esplosione di una delle bolle più grandi di sempre. Da un lato, con la pandemia, le applicazioni di delivery hanno raggiunto livelli di crescita esponenziali. Dall’altro, questa crescita continua a non produrre utili (nessuna delle grandi aziende del delivery è in attivo). E quando le compagnie saranno finalmente obbligate a pagare di più i rider, le cose potrebbero complicarsi ulteriormente.

Il delivery ha successo, in questi anni di perenne recessione, anche – o soprattutto? – per un particolare funzionamento psicologico. In Corea del Sud è stato chiamato shibal biyong, più o meno traducibile come “spesa di frustrazione”. Una spesa non necessaria, che facciamo come reazione. Tipo: stiamo lavorando troppo e siamo troppo stressati? La reazione comune sarà: anziché staccare e prenderci un’ora libera per cucinare una cena di qualità, riprendendo controllo della nostra vita, decidiamo di spendere 30 euro per una consegna di qualità medio-bassa. Una spirale auto-sabotante che alimenta un abbassamento generale della qualità. Del cibo, della vita.

Nel 2015, per la prima volta, la spesa negli Stati Uniti per mangiare non a casa (gli statistici dicono FAFH, “Food Away From Home”) ha superato quella per il cibo destinato alla sfera domestica. La spesa delivery va inclusa nella prima voce. Anche la trasformazione delle materie (l’atto di cucinare) è un processo sempre più distante dalla lista di cose che sappiamo fare. Uscire a cena, anche quello, un’esperienza potenzialmente in pericolo. Sì, ho scritto che la spesa per il “cibo fuori da casa” sta crescendo, ma in questo caso possiamo immaginare effetti a termine molto lungo. «L’effetto di molte operazioni di ristoranti che operano solo in delivery potrebbe avere effetti a lungo termine», scrive il New York Times in un articolo di maggio 2021, «accelerando la tendenza delle persone a ordinare cibo direttamente a casa anziché andare al ristorante». Uber e le applicazioni come lei non solo gestiscono il flusso di cibo consegnato, ma incoraggiano i ristoranti “fisici” a crearsi un Doppelgänger virtuale. Naturalmente, la convenienza del secondo è enormemente superiore a quella del primo, dal punto di vista economico, e il rischio che si facciano valutazioni solo su questo è grande.

Non è colpa della fretta, o non solo, d’altra parte le rosticcerie esistono non da decenni, ma da millenni: nel dicembre 2020 fa il giro del mondo la scoperta, a Pompei, di un thermopolium praticamente intatto, con ancora i disegni degli alimenti venduti. Non è altro, il thermopolium, che un posto che vende cibo pronto da comprare e mangiare al volo. Ma oggi, in un mondo sempre più definito dal cibo, il cibo è sempre meno visibile. Smaterializzato. Le rosticcerie stesse, anzi, sono messe in pericolo dalla smaterializzazione dell’esperienza. Anche una cosa semplice e niente affatto virtuosa in sé e per sé, come fare la spesa al supermercato, un gesto però di pur minimo contatto con il prodotto e la materia, si fa sempre più smaterializzato: la spesa online nel 2020 è cresciuta dell’85 per cento in Italia; negli Usa Walmart ha aumentato le vendite online soltanto di cibo del 74 per cento.

C’è una morale? Sì, ma è già evidente. Una soluzione? No. Forse. Sembra una scemenza, ma questa nuova onda di giovanissimi tiktoker che cucinano dà una qualche speranza. Hanno un seguito enorme, e sono contro i programmi di spettacolarizzazione del cibo, troppo finti, e anche contro le ricette “one pot” alla Buzzfeed che mostrano solo un paio di mani o di utensili (spersonalizzazione, eccoci) buttare 3 ingredienti in una bowl, mescolare, e dire mmmmh. Ahmad Alzahabi ha 4 milioni di follower, fa ricette complicatissime come un tiktoker, quindi in modo divertente, è bravissimo, e dice: «Le ricette che di solito diventano virali sugli altri social sono belle da vedere, ti attirano, ma non le fai mai davvero». TikTok è diverso. Perché è amatoriale, è facile, è sincero. «Non deve essere tutto bello», dice Ahmad. Che verità.