A Zohran Mamdani è bastato dire qualcosa davvero di sinistra

Il nuovo sindaco di New York ha costruito il suo successo sulla cara, vecchia lotta di classe, ma introducendo due novità: si è sempre mostrato allegro e mai apocalittico.

03 Novembre 2025

“Socialista” fino a non molto tempo fa negli Stati Uniti d’America era una parolaccia. Oggi con quell’appellativo nella bio rischi di diventare il sindaco di New York. Certo, va detto che “socialista” in America vuol dire di base “social democratico”, cioè credere nella redistribuzione delle risorse e rallentare un poco il tecnofeudalesimo e la broligarchia, o come lo chiamano oggi gli autori pubblicati da Verso Books. Bilancia, millennial, benestante, rapper a tempo perso (col nome di Young Cardamom), pro-pal, figlio di intellettuali immigrati, musulmano, amante del calcio, barbuto, ironico, carismatico con un nome “etnico”. Il profilo di Zohran Mamdani è l’incubo della casalinga americana dei sobborghi anni ’50. O un personaggio da Indovina chi viene a cena ambientato a Trumpland. Una vittima ideale del codice Hays, delle leggi Jim Crow e del Maccartismo. Un profilo impensabile fino a due decenni fa. Uno spauracchio da ricerca di mercato, utilizzabile dai conservatori per invitare a votare invece un qualche mormone biondo con vibe psycho o, come è stato nel caso delle primarie dem di New York, un vecchio italoamericano, ex governatore, caduto in disgrazia per via delle numerose molestie sessuali a sua volta figlio di un ex governatore, e sposato in prime nozze con una Kennedy (quello che in Usa hanno di più vicino all’aristocrazia) – cioè Andrew Cuomo. Prima Cuomo ha perso alle primarie contro Mamdani e poi si è candidato da indipendente, mossa sporca, invitando così una banda di miliardari, spaventati da un aumento delle tasse ai megapatrimoni, a coprirlo d’oro per spargere la voce che il giovane inesperto è un comunista cattivo che vuol vedere l’Upper East Side in fiamme (New York è la città al mondo con più miliardari e milionari).

Non soltanto il sindaco dell’internet

Basta vedere le prime pagine del New York Post, il giornale piuttosto trumpiano della città, che attacca a giorni alterni Mamdani dipingendolo come pericoloso, castrista, amico dei talebani, nepo baby, anti-bianchi, anti-gay, antisemita, e come uno «sconclusionato con la bocca piena di promesse vuote». Non è un caso che il Post abbia anche invitato il candidato repubblicano, un vecchio gattaro ex organizzatore di ronde anticrimine nella metro negli anni ’70, ad andarsene in modo da dirottare i suoi elettori Maga in direzione Cuomo. Il democratico Cuomo, che fu ministro clintoniano, che prima dello scandalo venne anche considerato come candidato presidenziale, diventa il contenitore dei voti che vanno da Woody Allen all’alt right. Sulla copertina dell’Economist di questa settimana, dal titolo “La battaglia per New York”, c’è Mamdani sorridente in piedi sull’Empire State Building, ma chi cerca di tirarlo giù, per la cravatta, è un kingkongiano Trump (e non Cuomo).

Si dice che il popolo newyorkese alle primarie abbia scelto Mamdani grazie a una strategia social che già stanno studiando alle Iulm e agli Ied del mondo, e probabilmente anche in largo del Nazareno, e che sicuramente è stata portata avanti benissimo. Ma, anche se Wired ha già incoronato Mamdani “sindaco dell’internet”, non possiamo pensare che non sia tema della battaglia (i soldi!) il vero motivo per cui Mamdani ha successo. Dopotutto è lo stesso tema che ha aiutato Trump, con l’inflazione, a rivincere a novembre. Il fatto che l’ala più moderata della coalizione dem, e cioè la maggioranza dell’establishment blu, avesse puntato su Cuomo, e il fatto che molti di questi ancora non abbiano ancora dato l’endorsement al giovane socialista, è stata l’ennesima conferma del problema che il centro sinistra, per citare Ferie d’agosto: «Non ce state a capì un cazzo, ma da mo». E la domanda che la sinistra globale dovrebbe farsi è: quando abbiamo smesso di pensare alla disuguaglianza e al costo della vita e ai salari bassi e alle case carissime?

Il socialista allegro

Donald J. Trump fin da quando è sceso dalla scala mobile della sua torre dorata ha cavalcato una posizione populista – che ha contribuito a creare tra bot russi e Fox News e podcast – ma che nasce da una zappata sui piedi che si sono dati gli stessi dem. Questa posizione vincente trumpiana si basa sul comunicare il fatto che, alla fine, tra George W. Bush e Hillary Clinton non c’è tanta differenza. Che tra Joe Biden e John McCain ci sono più similitudini che diversità. Che tra Nancy Pelosi e Mitt Romney lo scarto è minimo (e non è un caso che tutti questi repubblicani citati siano diventati No Trump per poi finire nel dimenticatoio). Tolto Obama – ma solo nelle intenzioni, e nonostante questo identificato immediatamente come un radicale dalla destra – nessuno che ha raggiunto questi livelli di potere ha mai fatto qualcosa di veramente “di sinistra” da riuscire a scalfire la pancia del nuovo proletariato. Biden per assurdo, uomo di palazzo, eletto in Congresso nello stesso anno in cui uscì Il Padrino, è stato quello un po’ meno pavido, ma ha comunque sempre corteggiato quella figura mitologica che è il centrista indeciso, invece che tenersi stretta l’ala sinistra del partito (negli ultimi giorni di campagna a novembre Kamala Harris faceva i comizi con le repubblicane antitrumpiane).

Certo, c’è sempre stato il memetico Bernie Sanders (con le sue successive succursali AOC e la Squad), vero outsdier ma dell’establishment (anche lui al Congresso da più di 35 anni), accettato come si accetta un Christian Raimo su La7, un Grillo Parlante innocuo – anche se dando retta a Michael Moore possiamo presupporre che fosse lui (Sanders, non Raimo) il vero vincitore delle primarie contro Clinton nel 2016, bloccato dai burocrati della DNC. Con Mamdani vediamo però un’evoluzione aiutata dallo spirito del tempo: le idee sono sempre quelle (redistribuzione, troppi ricchi – “i miliardari non dovrebbero esistere”, ha detto il 34enne, ma anche Billie Eilish – le case costano troppo, cioè roba da Stato sociale scandinavo) ma cambia qualcosa di profondo nella postura rispetto all’anziano senatore del Vermont: Mamdani non è apocalittico. Il tono populista scende, per quanto il sentore resti e Mamdani, anche in virtù di proporre politiche per una città e non per una nazione, diventa ben più pratico della Squad. Le cose poi vengono fatte con un’allegria che sembra mancare alla politica di oggi, dove da una parte il Magaworld sembra una religione dark fatta di complottismi, sottomissione e desideri autoritari (l’uomo forte è meglio del caos), e dove dall’altra parte (nell’establishment dem) c’è solo il panico, un’agenda che è tutta in funzione anti-Trump e una strana fiducia nelle istituzioni “che aggiusteranno tutto”.

Di Trump, francamente, me ne infischio

Mamdani se ne frega di Trump, non ha nemici identificabili, organizza tornei di calcio, cacce al tesoro, fa video buffi con le microcelebrità di quartiere, scherza sulla sua età, e tutti gli attacchi in questi mesi gli sono scivolati addosso. Non deve diventare però – perché sarebbe deleterio applicare il mamdanismo in Texas – un modello nazionale se non su una questione: l’economia (e non quella del WTO, ma quella delle famiglie). Come ha scritto Jared Abbott su Jacobin: «La vittoria di Mamdani non implica che i progressisti ovunque possano fare campagne più a sinistra possibile su temi divisivi, riuscendo ad arrivare agli elettori della classe lavoratrice. Al contrario, la strategia di Mamdani mostra che c’è stata consapevolezza su questi limiti: è stato attento a distanziarsi da posizioni iniziali, come ‘definanziare la polizia’ che avrebbero potuto togliere l’attenzione dal cuore del suo messaggio economico».

Niente discorsoni sui pronomi, niente “roba woke”, niente rischi di cadere nei tranelli su temi da campus Ivy League, niente passi falsi, ma una resistenza diplomatica, col sorriso, a tenere dritta la barra sull’unico messaggio: la gente non ce la fa a vivere a New York. Anche Ed Kilgore su New York Magazine l’ha detto bene: «Mamdani è un miracolo newyorkese, non è un modello nazionale per i democratici». Anche perché New York è New York, non certo il South Carolina o l’Idaho. Qui a New York Harris vinse contro Trump 68 a 30. Siamo nella culla, già dal secolo scorso, di quei post-marxisti che scrivevano sulla Partisan Review usciti dal City College (la “Harvard del proletariato”). C’è speranza quindi che gli altri dem non socialisti possano portarsi a casa una lezione dalle elezioni di New York che si terranno domani, senza però trasformarsi in dei pseudo-Mamdani? Perché il centro sinistra ha quel brutto vizio di innamorarsi dei vincenti che fino a poco prima osteggiava, cercando poi di scopiazzarne male il manuale, addirittura di esportarlo (ci ricordiamo di quando Veltroni voleva fare l’Obama). Ma è anche vero che un’eventuale vittoria di Mamdani, così come hanno fatto vedere i numeri delle manifestazioni sandersiane contro la Oligarchy, dimostrerebbe che i democratici oggi possono cambiare rotta se parlano di soldi, se rimettono la lotta di classe al centro, se prendendo il lato buono dei meme marxisti, facendo fare il giro ideologico a quel mantra che fece vincere Bill Clinton: “It’s the economy, stupid”.

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