Il mondo del lavoro visto da LinkedIn è un’altra cosa

Da piattaforma sobria, formale e necessaria per chi voleva lavorare in ambito corporate a versione brainrot di Facebook: come LinkedIn è diventato il social più strano e incomprensibile di tutti.

01 Maggio 2025

Non so se avete mai conosciuto qualcuno che abbia trovato lavoro grazie a LinkedIn ma, nel caso, eccomi qui: ho trovato lavoro su LinkedIn per ben due volte. La prima volta risposi a un annuncio e mi assunsero come social media analyst (due anni dopo diventai social media manager); la seconda volta mi contattò un head hunter e mi assunsero come social media manager (due anni dopo diventai social media analyst).

Dunque, ho alle spalle troppi anni di contributi per poter davvero parlare male di LinkedIn, ma negli ultimi tempi questo social network in giacca, cravatta e sorriso smagliante, che si era posto l’obiettivo di “connettere i professionisti di tutto il mondo per renderli più produttivi e di successo” è diventato weird e cringe. Se ne è accorta soprattutto la stampa anglosassone che si è lanciata in analisi approfondite sul fenomeno: da piattaforma sobria, formale e necessaria per chi voleva lavorare nel digital e nella consulenza, a versione brainrot di Facebook. Aggiungo che nel contesto italiano, LinkedIn ha comunque sempre avuto una sfumatura weird, meglio, trash.

Sul social come in ufficio

Questo perché, nel mondo anglosassone la “cultura corporate” esiste davvero, così come le grandi aziende che elargiscono stipendi notevoli, non come in Italia dove abbiamo una sua pallida imitazione che non è mai riuscita a svincolarsi dall’aggettivo “fantozziano”. La strambezza di LinkedIn e l’imbarazzo che ne deriva nell’osservarlo, dipendono dal fatto che è un contesto molto chiuso, dove si parla la lingua segreta dei consulenti e dei Ceo, del tutto oscura a chi non ne è dentro, e fatta soprattutto di inglesismi che suonano come professionali ma in realtà servono soprattutto da codice per riconoscersi tra simili.

I post di LinkedIn ricalcano molto spesso quello che già succede dentro gli uffici (atteggiamenti, tic, ossessioni, e gerarchie da schema Ponzi). Il posting su LinkedIn sa di moquette gialle e blu ammuffite agli angoli, di palazzoni in periferia e di traffico per arrivarci, dell’odore di mensa nei corridoi verso le 11:30 del mattino, di caffè amari, di camicie sudate sotto le ascelle, di disinfettante comprato all’ingrosso, di rabbia malamente trattenuta che fa capolino tra i gentilissimi e i cordialmente.

Anche per LinkedIn, come per altri social network, vale la regola dell’inversamente proporzionale (ad esempio, su Instagram più gli influencer postano foto della loro famiglia felice, più è probabile che siano sull’orlo del divorzio, con denunce per maltrattamenti a carico). Dunque, su LinkedIn più postano foto col capo, più sono dei galoppini in burnout che aspettano un aumento da dieci anni; più dichiarano di aver conseguito master in business più sono delle capre incapaci di scrivere un’email leggibile; più l’azienda si dichiara “Best Workplace”, più dentro ci sono situazioni da far impallidire qualsiasi “MeToo delle agenzie”, con dinamiche tossiche che si erano viste solo in certe sette pentacostali americane. Ovviamente, più il Ceo si dichiara inclusivo e femminista, più lo si vedrà passeggiare trionfalmente nei corridoi con un seguito di assistenti giovanissime, che lui “protegge” e si adopra per “portarle avanti”, con la preferita del momento sotto il braccio destro. Più il Ceo si dichiara attento alle minoranze, più odierà lo “smart working” (“work from home” nei Paesi anglosassoni, “lavoro da casa” in italiano) e posterà compulsivamente articoli che inneggiano alla cultura aziendale e su quanto sia arricchente (post che prenderanno almeno una decina di “Mi piace” e “Supporta” dai micro-manager in burnout).

I top manager con più bonus aziendali che ore lavorate assumono (a 400 € al mese) un social media manager per farsi gestire il profilo LinkedIn, che vorrebbero performante come quello di Richard Branson. L’aspirazione è quella di avere più follower ed engagement dell’amico Ceo dell’azienda rivale, con cui va a giocare a padel in orari d’ufficio (il social media manager più gettonato e di riferimento è quello noto per aver reso famosa un’agenzia di pompe funebri). Nessuno di loro ha mai capito fino in fondo la questione dei pronomi.

LinkedIners

Il feed di LinkedIn è stato sempre più o meno così ma, almeno fino a prima della pandemia, lavoro  lì sopra si riusciva ancora a trovarlo. Dopodiché, con la pandemia la piattaforma ha avuto un’impennata di crescita arrivando a 850 milioni di utenti registrati e 58 milioni di aziende presenti: a quel punto ha voluto puntare più alto, si è posta l’obiettivo di creare davvero un hub di cultura aziendale, e ha iniziato a investire su un programma di “LinkedIn Influencer”, che avrebbero condiviso esperienze lavorative e grandi ragionamenti tra business e tecno-umanesimo.

La piattaforma ha smesso di dare copertura gratuita ai link esterni, la cui visibilità è stata ammazzata d’ufficio proprio come su Facebook; chi scrive veramente si è rassegnato a mettere pure lì il link nel primo commento. I post lunghi scritti dai linkediners hanno poi dato il via all’attuale ondata di cringe, influenzati da un algoritmo che mette in evidenza trend stile “clean girl” su TikTok, ma con il metaverso e l’AI al posto dei Labubu.

A proposito di AI, ormai tutti si sono accorti che certi annunci di lavoro, anche di grandi e rinomate aziende, rimangono aperti per mesi: come mai questi non riescono mai a trovare un candidato da assumere? Un Hr che ha fatto la spia ci ha confermato il dubbio: sono annunci per allodole, che servono solo a raccogliere gratuitamente cv che poi serviranno a “nutrire” l’AI degli strumenti di recruiting. Infatti, oggi la scelta dei candidati avviene via intelligenza artificiale ma consiglio di non preoccuparsi troppo. Anche i cv possono essere fatti e rifatti ad hoc dall’AI, a seconda dell’annuncio a cui rispondere. LinkedIn, insomma, è diventato un grande crocevia di testi non scritti da mano umana e letti da nessuno: rappresentazione realistica dell’attuale terziario, o del lavoro culturale.

Ceo, micro-manager e stagisti

A malincuore bisogna constatare che LinkedIn oggi non è più quel social network dove potevi trovare lavoro se sapevi come andare a capo nella stessa cella su excel. LinkedIn oggi ti invia costantemente email che finiscono in spam, fastidiose quanto i call center-truffa che ti chiamano per informarti che hanno ricevuto il tuo cv: 12 persone hanno visto il tuo profilo, i tuoi post sono stati visualizzati 245 volte (“ok, ma allora dov’è il mio lavoro?”, si saranno domandati in tanti).

Continua ad essere il luogo virtuale più amato da Ceo, micro-manager e stagisti, che sperano di cambiare il mondo e di essere finalmente assunti con una Ral < 50.000 €, e da amici che non sono riusciti a farsi una famiglia e devono pagare almeno 300 euro di treno per scendere al paese a Natale, ma almeno hanno potuto scrivere “head of” di qualcosa nella loro bio di LinkedIn. Su LinkedIn non si parla quasi mai di “morti sul lavoro” ma sono tutti metaforicamente morti sul lavoro per esaurimento nervoso. Di questo problema sociale non se ne parla perché chi ne è affetto non lo ammette neanche a sé stesso: non è possibile che tutti quegli anni di studio e belle speranze, e l’aver lasciato il paese e la famiglia siano serviti solo a diventare popolare su LinkedIn.

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