Cultura | Cinema
Il Limonov sbagliato
Il film di Kirill Serebrennikov, presentato a Cannes e appena arrivato nelle sale italiane, è influenzato più dalla guerra in Ucraina che dal romanzo di Carrère.
Un giorno i distributori italiani capiranno che per un film non c’è niente di più importante del titolo e che cambiarlo dovrebbe essere l’eccezione, non la regola. Andare a vedere un film intitolato Limonov è un conto, andarne a vedere uno intitolato Limonov: The Ballad tutt’altro. Il film di Kirill Serebrennikov, presentato in anteprima mondiale allo scorso Festival di Cannes e arrivato nelle sale italiane il 5 settembre, si intitola Limonov: The Ballad non certo a caso: in quelle due parole in più c’è tutto quello che manca nel film, rispetto alla biografia romanzata scritta da Carrère e anche, soprattutto, rispetto alla vita vera di Eduard Limonov. Nel sottotitolo The Ballad si intuisce la vita che Serebrennikov preferisce tra tutte quelle, numerose, stupefacenti, spaventose, contraddittorie che Limonov ha vissuto: quella da starving artist, del reietto che veste come una rockstar e scrive come un agit-prop, Il poeta russo (che) preferisce i grandi negri. È questa la vita più interessante tra le nove e più vissute dallo stregatto Limonov? Forse sì, forse no, forse l’unica cosa che l’osservatore – quindi anche il narratore – può fare davanti a questa storia è mettere le mani avanti e dire «io sospendo il giudizio» come ha fatto Carrère: così è (se vi pare), ma così è tutto Limonov. O almeno, così è tutto il Limonov che Limonov stesso ha avuto voglia di raccontare e di inventare.
Che a Serebrennikov interessi soprattutto la vita di Limonov che può essere adattata in una ballata – una power ballad da dizionario del rock, una canzone popolare in cui Limonov è Lou Reed in una strofa, Johnny Rotten in un’altra, Eddie Ramone in un’altra ancora, tutti adeguatamente omaggiati nella colonna sonora del film – si capisce. Il regista è esule e dissidente pure lui: ha lasciato la Russia perché il suo Paese gli aveva ormai reso «impossibile lavorare e pure vivere», proprio come era successo a Limonov nel 1974. Con l’unica e rilevantissima differenza che Limonov non si è mai definito esule né dissidente. Il problema di Limonov: The Ballad è proprio questo: tentare un’interpretazione del suo protagonista, mettere un ordine nelle sue vite stabilendo un rapporto di causa-effetto tra quella che è venuta prima e quella che è venuta dopo, tracciare un sentiero che parte dal beatnik che si cuce i jeans da solo e arriva all’ideologo del nazional-bolscevismo, sempre alla disperata ricerca dell’approvazione della tribù che lo ha scacciato. Nel film di Serebrennikov, Limonov diventa se stesso dopo una lunghissima e drammaticissima serie di sfortunati eventi: di fughe, di abbandoni, di ritorni, di cadute, di dipendenze. Ma la fascinazione che questo personaggio ha esercitato, in sé e soprattutto attraverso la versione dei suoi fatti fornita da Carrère, sta proprio nell’impossibilità di spiegarne la vita usando i nessi causali e il concetto di divenire. Limonov non è mai diventato Limonov ma lo è sempre stato, in ogni momento: Eto ja, Edicka, “sono io, Eddie”, era il titolo originale del suo primo romanzo.
Proprio come la Russia, Limonov sembra essere l’unico detentore della sua verità, una verità così inspiegabile, incomunicabile al di fuori di sé, all’altro da sé che porta a una conseguenza soltanto: essere sempre contro. Contro il mondo, la vita, se stessi, paziente zero di una malattia rarissima, contratta a causa di uno stile di vita sudicio e malsano, una malattia che si cerca disperatamente di passare al prossimo perché «certi uomini vogliono solo vedere il mondo bruciare». La citazione dal Cavaliere oscuro è necessaria, quasi obbligatoria: Serebrennikov ha detto che il suo Limonov è un’invenzione non meno di quanto lo fosse quello di Carrère o dello stesso Limonov. Il Joker russo, così lo ha definito, «il mio Limonov», incarnazione di un popolo «troppo romantico e anarchico» per stare al mondo (quantomeno con il resto del mondo). Così si spiega anche la decisione del regista di creare una versione del personaggio in cui gli anni francesi sono solo una tappa veloce verso il ritorno nella Russia della Perestrojka, in cui la foto del fu Edicka che spara sui civili di Sarajevo non è stata mai scattata. Il Limonov francese era noioso, quello dei Balcani «non è accettabile; io non posso fare un film su una persona che fa queste cose», ha detto Serebrennikov.
Ecco, l’errore di Serebrennikov è stato questo: provare a inventare un Limonov per il quale avesse senso un’interpretazione logica e cronologica, creare un personaggio che meritasse la riattivazione del giudizio spento da Carrère. C’entra la guerra in Ucraina, ovviamente, senza la quale il film sarebbe stato un altro film: soltanto una ballata, appunto. Serebrennikov voleva fare questo, raccontare l’autore russo che per primo usò il cirillico per scrivere una scena di sesso omosessuale (un’intenzione iniziale che manifesta chiarissima in alcune scene: quella in cui Eddie fa sesso con il senzatetto afroamericano è la meglio diretta e più straziante del film), mostrare il ribelle che aveva soffocato il suo talento nei fumi tossici delle acciaierie di Charkiv, delle strade di Manhattan, delle sue stesse tossicodipendenze. È la ragione, questa, per la quale gli anni newyorchesi sono quelli che occupano la parte maggiore dello spazio-tempo del film (in un abbastanza estenuante susseguirsi di montaggi musicali tanto estetizzati quanto frivoli): la ballata di Limonov inizia e finisce lì. Per ammissione dello stesso Serebrennikov, però, la guerra in Ucraina lo ha costretto a fare un altro film, sia in senso letterale che letterario.
Letterale perché dal 24 febbraio 2022 in Russia non è stato più possibile fare il regista davvero: il set moscovita nel quale Serebrennikov stava girando il film è stato chiuso, la produzione fermata, lui costretto a sei mesi di ambasce prima di riuscire a fuggire a Riga e lì a finire il film, dopo averlo ricominciato quasi tutto da capo. In senso letterario, poi, la guerra in Ucraina ha di fatto trasformato Limonov: The Ballad in Limonov perché a quel punto ogni cosa fatta da un russo, in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo, in qualunque modo e per qualunque ragione, è diventata una cosa fatta dalla Russia adesso. E quindi Serebrennikov ha allungato, svogliatamente, pigramente, la ballata del suo Limonov fino all’attualità, strappando il film che voleva fare all’inizio nel tentativo di renderlo quello che doveva fare adesso: uno in cui Limonov diventa quello che non è mai stato, un simbolo russo, la spiegazione del suo popolo dal nomadismo dei Rus’ all’autocrazia putiniana, l’empio santino del mondo orribile nel quale viviamo. «Noi viviamo nel mondo di Limonov», ha detto il regista. Ma Serebrennikov fraintende, o forse lo trasforma in un altro Limonov, sbagliato, nel tentativo di spiegarlo a un pubblico non russo. Ed è per questo che il suo è un film che racconta il Limonov peggiore perché è l’unico che non è mai esistito: lui, Limonov, il mondo non ha mai voluto possederlo, solo distruggerlo.