Stiamo faticosamente aprendo, ribaltando, ripensando le coppie. Il libro "3. Un’aspirazione al fuori" ci suggerisce che, per migliorare le relazioni sentimentali, potremmo guardare a quelle amicali.
Qualche anno fa ho preso una gatta e l’ho chiamata Olivia. «Non l’hai ancora superata, eh», ha commentato mia madre con l’aria di chi la sa lunga. «È solo un nome», ho ribattuto stizzita. Mia madre alludeva a quella che, per quattro anni, era stata la mia migliore amica, e che avevo trovato seduta accanto a me in prima media, fra i banchi dell’ultima fila. Sono lenta ad affezionarmi alle persone e i colpi di fulmine rappresentano un’eccezione all’interno della mia grammatica emotiva, eppure non trovo altra categoria per descrivere la fascinazione che mi calamitò verso di lei appena la conobbi. Ascoltavamo la stessa musica, eravamo alte uguali e, scoprimmo presto, nate lo stesso giorno – tanto bastò per sentirci destinate a un’amicizia che, ne eravamo sicure, sarebbe durata per sempre, e che per un po’ ha avuto i tratti idilliaci, vagamente simbiotici, delle storie d’amore ai loro inizi. Io ero timida, lei esuberante; lei sboccata, io in punta di forchetta; io piuttosto distaccata, lei piena di entusiasmo; lei disobbediva all’autorità con piacere e disinvoltura, io volevo solo sentirmi dire “brava”. Olivia corrispondeva perfettamente allo stereotipo della cattiva compagnia, e i miei genitori provavano sentimenti ambigui nei suoi confronti: un po’ la trovavano divertente, un po’ temevano che avrebbe distrutto anni di educazione borghese per condurmi sulla cattiva strada. A distanza di venticinque anni da quell’incontro mi rendo conto che, se non l’avessi mai conosciuta, oggi sarei una persona diversa – e sicuramente più noiosa.
Buone amiche, cattive influenze
«Queste cattive influenze aiutano le eroine a sfuggire ai mondi domestici che le soffocano e non hanno nessuna aspettativa per il loro futuro. Le conducono nel territorio oscuro e pericoloso dell’aldilà. Le aiutano a dimenticare le prudenti lezioni che sono state loro impartite. Questi rischi sono essenziali. In quale altro modo l’eroina potrà mai scoprire chi è e chi dovrebbe diventare?», scrive Tiffany Watt Smith in Pessima amica (pubblicato da UTET con traduzione di Chiara Baffa), un saggio dove l’autrice, storica della cultura, esplora l’amicizia femminile intrecciando l’analisi di aneddoti personali e storiografici a fonti teoriche. Queste ultime, a eccezione delle filosofie femministe, hanno sempre espresso notevole scetticismo nei confronti dei rapporti fra donne. A partire da Aristotele passando da Montaigne, che elogiava le relazioni amicali sopra tutte le altre ma credeva che le donne non fossero in grado di instaurare rapporti paritari di affetto e cura, fino ad arrivare ai numerosi luoghi comuni che screditano sistematicamente la possibilità di una complicità fra donne, le comunità femminili non hanno mai goduto di buona fama.
Quando, una decina d’anni fa, cominciai a scrivere per una piccola agenzia di comunicazione dove lavoravano solo donne, tutti mi dissero “sarà tosta”, e quasi mi sorpresi quando mi accorsi che il clima era invece collaborativo e rilassato, a tratti giocoso, niente affatto attraversato dalle invidie e dai pettegolezzi che sempre si ascrivono ai rapporti femminili. Sebbene lavorassimo parecchio e a ritmi sostenuti, l’atmosfera era amichevole, come in ogni altro gineceo di cui abbia fatto parte – quando fanno le cose insieme, le donne diventano subito amiche, e se è vero che «non dobbiamo per forza diventare amiche per essere alleate», bisogna riconoscere che «anche la storia dell’attivismo femminile degli anni Sessanta è impossibile da raccontare senza parlare di amicizia».
Watt Smith rintraccia numerosi esempi storici a sostegno di questa tesi, dalle beghine che, nel nord dell’Europa, formavano comunità autonome, solidali e svincolate dall’egida ecclesiastica, ai gruppi di donne non sposate, impiegate nell’industria della seta, che nella Parigi del XIII secolo si stringevano in nuclei di sostegno economico e abitativo, assimilabili a vere e proprie famiglie, fino ai gruppi di amiche che, in epoca più recente, decidono di andare a vivere insieme per garantirsi supporto reciproco e compagnia durante la vecchiaia. In ogni fase della vita le amiche rappresentano sì un luogo di conforto, svago e sostegno, ma anche uno specchio che ci aiuta, niccianamente, a diventare quello che siamo, a corrispondere alla versione più autentica di noi stesse – una versione che non si dà una volta per tutte ma che si costruisce nello scambio con le altre, e che va incontro a una evoluzione continua. È in questa dimensione dialettica e formativa che si annidano, però, anche i rischi maggiori.
Un confronto continuo
Non posso sapere con esattezza cosa significhi, per un maschio, essere amico di un altro maschio, ma so che da femmina, durante l’adolescenza e non solo, è pressoché impossibile non fissarsi, con un filo di inquietudine, su quello che fa la nostra amica. Sul suo corpo, che già da ragazzine ci insegnano a misurare per valutarne l’attrattività, sul modo in cui parla, ride, gesticola e si rapporta ai ragazzi, sulla popolarità di cui gode e che a noi magari manca, sul suo riflesso che può nobilitarci o farci crollare, sul matrimonio che ha appena contratto o su quello che ha deciso di mandare a monte. Sulla sua vita, il suo lavoro e il suo carattere che, se da un lato possono esserci d’ispirazione, dall’altro rischiano di sembrarci sempre, e tristemente, migliori dei nostri. Serve una lunga pratica di decostruzione per smetterla di osservare le nostre amiche solo per paragonarci a loro, e cominciare invece a farlo per il puro piacere di guardarle. È in questo rimando di riflessi continuo, a tratti sfiancante, che si costruisce il delicato equilibrio fra rivalità e complicità, fra confronto e sorellanza. È su questo terreno che molti rapporti capitolano, esasperati dall’emulazione o scossi da scelte di vita che vengono vissute come veri e propri tradimenti. Come scrive la psicoterapeuta Susie Orbach, la cosa più difficile è legarsi senza cercare di clonarsi.
In Pessima amica torna spesso una domanda: se, da un lato, sono piuttosto chiari i tratti di una sodale mediocre, come si fa a essere una buona amica? A partire dal Novecento l’amicizia femminile è stata parzialmente riabilitata, si è diffusa l’idea che le donne siano naturalmente brave a stringere e mantenere rapporti – forse perché si crede che siano naturalmente portate al lavoro di cura, o che abbiano una sensibilità più spiccata e attenta rispetto ai maschi – e con essa anche nuove aspettative sulla forma che questi legami dovrebbero assumere per essere giudicati sani, utili, felici. Per ciascuna fase della vita si cerca di codificare quali siano le responsabilità e i limiti di una buona amica, che cosa è lecito aspettarsi e che cosa no, e tutto ciò che esula da questa definizione va incontro a un generico biasimo sociale: non è auspicabile, per esempio, scegliere di vivere vicino alle amiche piuttosto che accanto alla propria famiglia, e confessare a un’amica una certa perplessità nei confronti dell’uomo che ha scelto come sposo potrebbe sembrare un’indebita invasione di campo.
Simone Weil ha scritto che l’amicizia «non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si esercita», ed è piuttosto condivisibile: al pari dei nostri rapporti amorosi, ha bisogno di tempo, cura e impegno per essere mantenuta. Forse, però, Weil voleva dire anche qualcosa in più, ovvero che l’amicizia è una relazione che non si può mai dare in forma teorica e per cui è forse ozioso cercare di stabilire regole a priori, perché ha senso solo nel momento in cui si pratica, in cui diventa realtà. Ogni tentativo rappresenta un pezzo unico: segue le proprie leggi e ha una traiettoria tutta sua.
Avevo quindici anni quando Olivia cambiò scuola senza farmene parola e, da un giorno all’altro, scomparve dalla mia vita. Per un po’ smisi di mangiare, e a lungo le ho portato rancore per quella che ricordo come una delle rotture più dolorose della mia vita. Per molto tempo non l’ho più rivista, ogni tanto mi arrivavano sue notizie che però non cercavo mai di approfondire – non volevo sapere cosa facesse, né chi le stirasse i capelli ora che non ero più io a pettinarglieli, o chi chiamasse ogni sera per confidarsi. Qualche anno fa sono andata a cena in quello che, nel frattempo, era diventato il suo ristorante. Ci siamo abbracciate e ho pensato che il suo corpo era più o meno sempre lo stesso di quando lo vivevo come un’estensione del mio, abbiamo bevuto e fumato, siamo rimaste a parlare fino all’alba, ubriache ed entusiaste della fortuna che avevamo avuto a conoscerci e a godere, per qualche anno, di un’amicizia così. Per alcune settimane, dopo quell’incontro, fantasticai pigramente che il secondo atto della nostra amicizia stesse per cominciare, ma poi non tornai mai al suo ristorante, non le chiesi di vederci, né lei a me, e infine smisi di pensarci. Le quattro di Sex and The City esistono solo grazie a Hbo e anche le Spice Girls dopo due album si sono sciolte: come per gli amori, ci sono amiche fatte per restare e costruire un mondo insieme, e altre, non meno importanti, che ti intercettano a un bivio, ti sconvolgono un po’ la vita, ti fanno capire qualcosa di quello che sei, e poi vanno via.
