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Perché la destra è ancora così ossessionata dal diritto all’aborto?

La legge del governo Meloni sui consultori è soltanto una parte, piccola, di un attacco portato avanti da conservatori e reazionari di tutto l'Occidente a un diritto che non hanno mai davvero considerato tale.

di Lucrezia Tiberio

Il diritto garantito dalla legge 194 del 1978 in Italia ha subito un’ulteriore stretta – o almeno così è stata percepita – con l’emendamento al disegno di legge per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che dà legittimità a livello nazionale all’ingresso delle associazioni antiabortiste nei consultori, dove la maggior parte delle persone si reca per ottenere il certificato necessario per abortire. L’emendamento di Fratelli d’Italia stabilisce che le regioni possono «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». In realtà, non cambia molto da com’era prima: in alcune parti d’Italia le associazioni antiabortiste sono già presenti nei consultori, grazie al finanziamento delle regioni; i pro-life hanno la facoltà di dissuadere le donne che intendono abortire durante i colloqui. L’attività degli antiabortisti è garantita dall’articolo 2 proprio della 194, dove si dice che una delle funzioni fondamentali dei consultori e delle strutture sociosanitarie è di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».

Questo emendamento ha comunque un valore politico: perché legittima, su carta, una pratica portata avanti finora a livello locale. Insieme al graduale smantellamento dei consultori pubblici, l’altissimo numero di ginecologi e medici obiettori di coscienza, la mancanza di un’educazione sessuale nei percorsi scolastici, la legge è un ulteriore ostacolo imposto dalla destra all’esercizio di un diritto.

Mentre la Francia, in vista delle elezioni, inserisce l’interruzione di gravidanza nella Costituzione perché nessun diritto può essere dato per scontato, la maggioranza di governo, in Italia, è apertamente antiabortista, ben allineata con l’Europa più reazionaria. Qui, il corpo delle donne è oggetto di propaganda, è campo di battaglia per gli equilibri politici. Come altrove, guardando più a Est: in Ungheria non vige il divieto di abortire, ma le donne sono costrette a osservare i segni vitali del feto prima di procedere con l’interruzione di gravidanza. La Polonia ha soltanto di recente approvato quattro proposte di legge che puntano a rimuovere il bando pressoché totale all’aborto in vigore dal 2020. Nel giugno del 2022, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che garantiva l’accesso all’aborto, aprendo la strada agli stati per vietare completamente l’aborto. Nell’anno successivo alla decisione, 14 Stati hanno quindi reso illegale l’interruzione di gravidanza.

Nel libro Il femminismo è per tuttx bell hooks ricorda che «concedere alle donne il diritto civile di avere il controllo sul proprio corpo è un principio femminista fondamentale. Se una singola donna debba abortire è puramente una questione di scelta. Non è antifemminista da parte nostra scegliere di non abortire. Ma è un principio femminista che le donne dovrebbero avere il diritto di scegliere». È pacifico che le destre nel mondo stiano mettendo in atto, negli ultimi anni, un controllo violento e autoritario del corpo delle donne, assillando il dibattito pubblico proprio sul pericolo di lasciare alle donne la capacità di decidere. Ma perché è tornata questa ossessione?

L’aborto è uno dei pochi diritti che per i conservatori ha bisogno di una motivazione valida per essere esercitato. Non si può solo abortire: bisogna abortire e soffrire, abortire ed essere consce di “quello che si sta facendo”, abortire e poi pensarci per tutta la vita, abortire e riflettere. Persino il momento di riflessione non può essere gestito in autonomia, e in privato, dalla donna; è necessario affiancare dei sostegni “per la vita” che l’aiutino a capire il suo desiderio di maternità. Se applicassimo lo stesso ragionamento esasperante ad altri diritti ci aspetteremmo un’insurrezione violentissima. Forse uno dei motivi principali dell’ossessione verso l’aborto è che è un diritto pensato necessariamente per le donne.

La fissazione verso l’aborto, in realtà, è un retaggio culturale maschilista antichissimo. Mona Chollet, autrice del saggio Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #MeToo (UTET), nel capitolo intitolato “Il desiderio di essere sterili” spiega che in Europa il potere politico ha cominciato a essere ossessionato dall’aborto già a partire dall’epoca della caccia alle streghe. Quello che spaventa una parte della società e della classe politica, prima ancora della possibilità di interrompere una gravidanza, è che le donne desiderino la sterilità. O più semplicemente: non portare avanti una gravidanza in un dato momento della vita.

Combattere per limitare il diritto all’aborto, o vietarlo del tutto, è necessario per difendere la maternità come istituzione; Adrienne Rich, poetessa statunitense, ha descritto l’esperienza della maternità come qualcosa che «ha tenuto la donna in un ghetto, umiliando il potenziale femminile». L’ossessione della destra per l’aborto – e tutto quello che riguarda la giustizia riproduttiva – nasce dall’idea ben radicata che la donna dev’essere anche, e per forza, madre. Scrive Chollet: «Quando non si mette in dubbio la buona fede delle donne che hanno scelto di non avere figli, si attribuiscono loro delle maternità sostitutive: le professoresse sono madri dei loro alunni, i libri sono figli delle scrittrici e così via». In qualche modo, le donne devono avere a che fare con la maternità, e quando si sottraggono vengono meno alla loro identità. Un uomo che decide di non essere padre, al massimo, viene meno a una funzione sociale.

Negli editoriali di risposta all’articolo di Simonetta Sciandivasci, “Non ti ho fatto nascere eppure sono in pace, che racconta la sua esperienza di aborto, si insiste soprattutto sul fatto che l’interruzione di gravidanza sia – anzi, debba essere – dolorosa, un’esperienza da non prendere con leggerezza, come una “storiella all’ora dell’aperitivo”. Ma così raccontato, l’aborto diventa un fatto di pubblica morale, come quando lo stupro era un delitto contro la morale e non contro la persona. Se una scelta offende la morale, i confini per proibirla si fanno più sfumati, potenzialmente ampissimi. Un’opinione di questo tipo sottintende che se l’interruzione di gravidanza diventasse un diritto effettivamente libero, le donne accorrerebbero in massa ad abortire con leggerezza, togliendo la vita in modo immorale: consacrando, ancora una volta, l’incapacità sociale e giuridica delle donne. Come se fossero, ancora, streghe.