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Il problema non è l’immigrazione, sono i confini

Siamo tornati a parlare di Lampedusa, di immigrati, di sbarchi. Un discorso che supereremo solo quando accetteremo l'obsolescenza dei confini, ci spiega in questa intervista l'antropologo Shahram Khosravi, autore di Io sono confine.

di Francesco Gerardi

Nel 1988 Shahram Khosravi lasciava il suo Paese, l’Iran, e diventava uno dei mosafer (passeggeri, clienti) di Nour, un afghano di mezza età specializzato nel guidare gli iraniani al di là del confine con l’Afghanistan, appunto. «Ho deciso di scappare», mi spiega Khosravi, «dalla guerra che all’epoca si combatteva tra l’Iran e l’Iraq». Non voleva che di lui rimanesse soltanto una lettera inviata alla sua famiglia dall’esercito iraniano in cui si facevano «tabrik va tasliat», congratulazioni e condoglianze. Decise dunque di cominciare un viaggio che sarebbe iniziato in Afghanistan come immigrato clandestino, proseguito in Sudan come richiedente asilo, finito in Svezia, dove ora Khosravi insegna Antropologia all’Università di Stoccolma. Quel viaggio lo ha raccontato in un libro, Io sono confine (Eleuthera), che però rifiuta di chiamare autobiografia. «È un’autoetnografia. Una biografia dei confini». Dentro c’è la sua storia, certo, che però assomiglia a milioni di altre storie. «Ho raccontato me stesso perché era necessario». L’autoetnografia, d’altronde, non è saggistica propriamente detta. Prevede, infatti, che «il lettore partecipi moralmente, emotivamente, intellettualmente alla storia che legge». E una simile partecipazione la si può avere solo leggendo una testimonianza in prima persona. Ma in Io sono confine, e con il suo lavoro accademico, Khosravi aveva anche un altro obiettivo: smentire il racconto che vuole fare della migrazione un fenomeno essenzialmente criminale. «Perché la criminalizzazione è la scorciatoia. Di fronte a un fenomeno di immensa complessità che richiede quindi sforzi e competenze proporzionate per essere governato, si sceglie la criminalizzazione. Perché se una cosa è un crimine, non ha senso provare a governarlo, ma serve solo reprimerlo. E, anzi, governarlo diventa così la scelta immorale, la repressione quella morale. Ma per molti aspetti, le migrazioni sono simili ai fenomeni naturali: non si possono vietare per legge».

Nel libro dice di volere scrivere non delle migrazioni ma della cultura della migrazione. Cosa intende con questa definizione?
Quello che intendo con cultura della migrazione è il sostrato socioculturale che, nei Paesi in cui esiste, facilita e perpetua il superamento dei confini nazionali. E, nei Paesi in cui invece non esiste, rende ancora più difficile una cosa già difficilissima. Il passaggio dalla non-esistenza all’esistenza di questa cultura avviene davvero, però, quando la migrazione non è più solo un fenomeno accettato ma anche previsto, quasi preteso. L’esempio dell’Iran: ora, nel Paese c’è un altissimo numero di cervelli in fuga, persone con una formazione superiore che decidono di emigrare per motivi economici e professionali. Questa è una delle possibili culture della migrazione. Un altro tipo di cultura della migrazione esiste, per esempio, in Afghanistan. Lì, l’aspettativa, la pretesa, è
che i giovani uomini vadano in Pakistan o Iran a lavorare e che mandino poi in patria i soldi guadagnati. Stesso discorso per un altro Paese di emigranti, il Messico: lì la migrazione fa parte delle economie familiari. Insomma, le migrazioni producono cultura. O, meglio, diverse culture della migrazione.

Nel dibattito pubblico contemporaneo, però, la migrazione è considerata un problema da risolvere, un fenomeno da interrompere, in tanti Stati è declinata anche in senso penale, con diverse fattispecie di reato appositamente inventate.
Nel dibattito sull’immigrazione si tende ad andare avanti per dicotomia. Quindi per semplificazioni. Una su tutte: migrazione volontaria da una parte e migrazione costretta dall’altra. E poi: i viaggi illegali ma tutelati di chi scappa dalla guerra o dalle persecuzioni e quelli illegali e basta di chi fugge da povertà e crisi economiche, tutti confini posticci che tentano di spezzettare un’esperienza che è la stessa quasi sempre, quasi per tutti. Ma la realtà non è semplice come la vorrebbero le leggi o i dibattiti. Non esiste nessuna forma di migrazione che sia interamente costretta, al di fuori della schiavitù. In tutte le altre forme c’è uno spazio in cui si verifica la scelta. Certo deve convivere, questa scelta, con un grandissima componente di costrizione. Come tutte le questioni umane, anche le migrazioni dipendono dal capitale economico a disposizione, dalle relazioni che si possiedono, dalla conoscenza di una o più lingue straniere. Volontaria e costretta sono solo i due estremi dello spettro delle migrazioni. E se il dibattito su di queste è così infruttuoso è proprio perché ci ostiniamo a raccontare soltanto queste due estremità.

Anche perché sono le due estremità propedeutiche al discorso sull’immigrazione per come lo conosciamo oggi. Sostanzialmente un discorso sulla criminalità e sulla minaccia alla sicurezza nazionale, alla stabilità economica e alla continuità culturale.
Il problema, oggi, è che quando si parla di immigrazione, nella percezione collettiva, si pensa a un fenomeno criminale. Si criminalizzano i migranti e si criminalizzano gli “agenti” delle migrazioni, coprendo con lo stesso colore tutte le sfumature cromatiche del fenomeno. L’istituzione della figura del cosiddetto “trafficante” è fondamentale per rendere il discorso sull’immigrazione un discorso sulla criminalità, per esempio. Ora, chiariamoci: tra i protagonisti dei flussi migratori ci sono tantissime cattive persone, veri e propri criminali. Ma questo non toglie il fatto che esistano delle differenze e che queste differenze siano fondamentali. È fondamentale conoscere la differenza tra “human trafficker” e “human smuggler”. Gli human trafficker sono una branca specializzata della criminalità, “spostano” le persone attraverso le rotte migratorie, fanno in modo che queste lavorino – nella maggior parte dei casi gli uomini come braccianti agricoli e le donne come prostitute – per far sì che possano pagare il “viaggio”. Gli human smuggler non sono la stessa cosa. Gli smuggler sono figure simili a facilitatori: conoscono le rotte, possiedono i contatti, portano le persone dove queste vogliono andare e poi il loro compito è esaurito. Spesso questo servizio viene fornito senza un ricompensa economica. Talvolta gli smuggler sono membri della famiglia o amici della stessa che agiscono mossi da ragioni non economiche. Certo, in certi casi le due figure si sovrappongono. Lo stesso viaggio può cominciare con uno smuggler e finisce con un trafficker. Tra queste figure, tra questi lavori, esistono dei confini. Anche temporali.

In che senso, temporali?
Come ogni cosa umana, anche le migrazioni hanno una loro storia e quindi dei confini temporali al loro interno. Fino agli anni Ottanta, sia i trafficker che gli smuggler erano figure molto meno “raffinate” perché era più semplice superare un confine, contraffare un passaporto. Immagina provare a fare la stessa cosa adesso. È anche per questo che da un certo punto in poi migrare illegalmente è diventato così pericoloso. Perché l’aumento dei controlli ha reso più difficile l’immigrazione. Ma essendo quest’ultima impossibile da eliminare, all’aumento dei controlli è corrisposto un aumento della pericolosità dei viaggi. Ovviamente, un servizio che diventa più difficile da fornire diventa anche più costoso da acquistare. È così che l’immigrazione è diventato un mercato incredibilmente lucrativo per la criminalità. Miliardi di dollari di valore. È un evidente circolo vizioso: l’innalzamento di nuovi confini e il rafforzamento di quelli vecchi ha creato questo mercato e, quindi, le migrazioni per come le conosciamo oggi.

E quando sono cominciate le migrazioni per come le conosciamo oggi?
Con la fine della Guerra fredda. All’epoca in tutto il mondo esistevano sedici barriere tra i Paesi. Intendo barriere in senso fisico: muri, cose di questo tipo. Oggi ne esistono più di ottanta. Dentro questo numero c’è molto della storia recente del mondo, perché queste nuove barriere sono state costruite dai Paesi più ricchi del mondo per proteggere la loro ricchezza, non solo e non tanto per garantire la propria sicurezza, quindi. L’Arabia Saudita ha costruito un muro per separarsi fisicamente dallo Yemen. L’India ha fatto la stessa cosa con il Bangladesh, l’Iran con l’Afghanistan, la Grecia con la Turchia. Costruire barriere artificiali è un’operazione estremamente costosa che solo gli Stati più ricchi del mondo si possono permettere. Ed è un’operazione che serve a separarli dalla povertà, degli altri Paesi e degli altri popoli. La ricchezza, nel nostro mondo, è l’unica cosa che permette il superamento di ogni confine. Con un milione di euro si può comprare la cittadinanza maltese. Con 200 mila dollari americani si diventa cittadini di una delle isole caraibiche. Un capitale di 300 mila dollari canadesi permette di trasferirsi lì e di diventare cittadini dopo cinque o sei anni. I muri esistono per tenere dall’altra parte la povertà.

L’unico vero confine esistente al mondo, dunque, è quello economico?
Il confine più presidiato di tutti non è un confine fisico ma uno economico. È il wage gap, un confine sul quale si basa l’esistenza stessa di diverse economie avanzate del mondo. Separa le persone che sono cittadini veri e propri da quelle che sono soltanto forza lavoro, la cui de-umanizzazione comincia, nel discorso che se ne fa nei Paesi ricchi, già durante il viaggio che forse li porterà a superare i confini. È la ragione per la quale, nel gergo, spesso i migranti vengono definiti come animali: i messicani che attraversano il confine con gli Stati Uniti vengono chiamati pollos; i clandestini che entrano in Cina renshe, serpenti umani; gli iraniani spesso chiamano gosfand, pecore, i migranti. Tra l’altro, nota: sono tutti animali usati in riti sacrificali, come a volerne segnare la sorte già alla partenza. Un elemento assai contraddittorio della vita di un migrante è questo: è difficilissimo, come abbiamo detto, arrivare in un Paese (più) ricco, usiamo questo aggettivo per comodità. Ma, una volta arrivati, spostarsi all’interno del Paese ricco è facilissimo, anche per i cosiddetti clandestini. Perché a questo punto i migranti sono la risposta alle necessità del sistema economico e queste necessità permettono il superamento di tutti i confini: non importa più la legalità dello status dell’individuo ma solo la sua abilità al lavoro. L’Italia, da questo punto di vista, è un esempio chiarificatore. Arrivare legalmente in Italia è praticamente impossibile e quindi ci si arriva illegalmente. Allo stesso tempo, però, una volta arrivati i clandestini riescono a muoversi all’interno del Paese senza quasi nessun problema. Perché? Perché in una regione c’è bisogno di qualcuno che raccolga le arance, in un’altra di chi faccia la vendemmia, in un’altra ancora di chi raccolga le olive. Le necessità del sistema economico, dunque, permettono poi di fatto il superamento dei confini, sia geografici che legali.

Eppure viviamo in un’epoca in cui, da un lato, si parla dei confini come di un residuo storico. Dall’altro, però, le legislazioni in materia d’immigrazione si inaspriscono sempre più.
È una compensazione inevitabile. La storia dell’Unione europea, da questo punto di vista, spiega tutto. Per rimuovere i confini all’interno dell’area Schengen era inevitabile, per certi versi persino necessario, rafforzare i confini attorno a quella stessa area. Senza considerare che le linee di demarcazione degli Stati nazione ottocenteschi e novecenteschi esistono ancora. Non più tanto sulla mappa, magari, ma nel dibattito pubblico e nell’arena politica di sicuro, e gli europei lo sanno. Dal punto di vista dell’elaborazione storico-filosofica, è vero che abbiamo cominciato a superare il concetto di confine come lo abbiamo definito in particolare negli ultimi due secoli. Ma da un punto di vista pratico, politico, e per certi versi anche culturale, tutto ciò di cui siamo capaci in questo momento è spostare i confini.

Quindi, paradossalmente, le migrazioni illegali sono conseguenza dello spostamento, nel senso di allargamento, dei confini? Seguendo questo ragionamento, le migrazioni di massa sono una conseguenza indiretta e indesiderata della globalizzazione, il più grande spostamento-allargamento dei confini della storia umana?
Quella che chiamiamo globalizzazione, che all’inizio era una speranza, un sogno, si è tradotta poi quasi esclusivamente in libera circolazione di merci, servizi e capitali. Una globalizzazione economica. Il fatto che la realizzazione di questa globalizzazione economica e l’aumento delle migrazioni siano andate di pari passo non è un caso. Ti porto un esempio che sto studiando in questo periodo, quello della Romania. Dopo l’ingresso del Paese nell’Unione europea, moltissimi imprenditori viennesi hanno comprato enormi appezzamenti di terreni agricoli lì, migliaia di ettari. Che cosa è successo alle persone che lavoravano in quei terreni agricoli? Sono diventati migranti. Tanti sono arrivati in Italia, tra l’altro. La stessa identica cosa è successa in America con il Nafta [l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico, ndr]: il risultato è stato la bancarotta per tanti agricoltori messicani, che sono stati costretti a emigrare negli Stati Uniti e in Canada, diventando manodopera a basso costo e diventando i protagonisti di un’altra iterazione di quel circolo vizioso di cui abbiamo parlato prima.

Ma allora i confini, da un punto di vista non solo geografico ma anche culturale, non smetteranno mai di esistere.
I confini non esistono in natura, non li ha creati Dio. Sono cose umane, finite per definizione. Certo che prima o poi smetteranno di esistere. Il punto è: possiamo permetterci di aspettare quel momento oppure no?

Questo articolo è tratto da “New World Border – Il nostro posto nel mondo”, il numero di Rivista Studio in edicola. Se volete acquistare una copia oppure abbonarvi, potete farlo qui.