Stili di vita | Dal numero

La Gastronomia Yamamoto e il Giappone casalingo

Aya e la madre hanno aperto nel 2017 a Milano un ristorante dedicato al lato meno conosciuto della cucina nipponica.

di Arianna Cavallo

Fotografia di Mattia Greghi

Un sabato a pranzo dalla Gastronomia Yamamoto puoi incontrare gruppi di amici asiatici, coppie di fidanzati e famiglie di tutti i tipi. Quello che certamente non troverai sono piatti di sushi, sashimi e miscugli nippobrasiliani, ma solo pietanze giapponesi tradizionali, le stesse preparate ogni giorno a casa e in trattoria: sostanzioso curry (si legge kaa-ree), una don (ciotola di riso e anguilla), insalata di patate con maionese Kewpie, zucca stufata e katsu sando, il sandwich con la cotoletta che sta mordicchiando un bimbo di 4-5 anni al tavolo di fianco al mio.

È per i nuovi milanesi come lui che Aya Yamamoto ha aperto un anno fa insieme alla madre questo accogliente locale a Missori, già tra i più amati della città. «La Gastronomia ha una storia molto personale – mi spiega Aya – Ho 32 anni, sono arrivata a Milano da Tokyo che ne avevo cinque e sono cresciuta vergognandomi di essere giapponese. Quando andavo alle elementari mia madre mi preparava ogni giorno il bento, finché le chiesi di farmi un panino perché volevo essere come tutti. Poi a 18 anni sono andata a studiare a Londra e lì ho capito che quello che conta è chi sei veramente; dopo 11 anni sono tornata per aprire un posto mio, nella mia città».

La Gastronomia è un luogo che vuole sfaldare i cliché a partire dal cibo: «Ricordo quando da ragazzina mi urlavano geisha per strada; ma non siamo tutte geishe e non mangiamo solo sushi. Vorrei che uscendo dal mio locale le persone sentissero di aver imparato qualcosa su come mangiamo davvero in Giappone. Per esempio il sake non si beve alla fine ma durante il pasto, che viene concluso dal riso e dalla zuppa se si ha ancora fame». Entrando si è accolti dal banco con le pietanze d’asporto e i bento, il corrispettivo della schiscetta: è un piatto completo composto da riso, carne o pesce, e verdure.

Fotografia di Mattia Greghi

Poi c’è la sala da 30 coperti con la cucina a vista dove stufano e spadellano i due chef, Himeno Shun ed Ena Chikusa. «Lui arriva da Kyushu, nel Sud, dove i sapori sono più dolci. Lei ha una grandissima tecnica; non conosce i preconcetti degli italiani sul cibo giapponese e prepara piatti inaspettati. La specialità dell’inverno sarà per esempio il tonjiru, una zuppa con verdure e pancetta». Aya tiene molto anche alla crescita del personale: «Voglio applicare al ristorante la gestione delle aziende all’avanguardia, attente al benessere dei dipendenti: abbiamo una lezione di yoga settimanale, andiamo ai corsi di aggiornamento e facciamo riunioni continue. Siamo una decina, tutti giapponesi tranne due italiani cresciuti coi manga e un ragazzo delle Filippine».

La clientela invece è molto variegata per nazionalità e fasce d’età: «Circa il 60 per cento sono clienti abituali, alcuni li conosciamo per nome. Sono impiegati delle aziende vicine ma anche ragazzini che insegnano ai nonni come maneggiare le bacchette». Quando le chiedo cosa mangia lei mi risponde: «Io mischio tutto, ho un cuore ribelle, cerco di tenere radici in entrambe le culture; la domenica di solito ho voglia di pasta perché al ristorante mangio riso tutta la settimana. Con questo progetto mi sento di nuovo vicina al Giappone e se tornassi a scuola, ti mostrerei con fierezza il mio bento. Faccio quel che faccio perché per i bambini di adesso sia lo stesso».