Attualità | Esteri
Il documentario Kill Zone è la testimonianza su Gaza di cui abbiamo bisogno
Realizzato da dodici giornalisti palestinesi, racconta diversi mesi di assedio nella Striscia. È il primo documento di questo tipo, e per questo è prezioso.
Il 26 maggio 2024 arrivano sui nostri piccoli schermi le prime immagine di Rafah in fiamme. È un campo profughi bombardato, ci sono decine di morti, le tende bruciano nella notte e ci sono persone che urlano. Un uomo cerca di mostrare alle telecamere degli smartphone che lo riprendono qualcosa che regge con entrambe le mani: è il cadavere di un bambino, è un cadavere senza la testa. Il 28 maggio 2024 diventa virale, su Instagram, una Story creata con l’aiuto di un’intelligenza artificiale in cui decine di tende formano la scritta “All Eyes On Rafah”. Viene condivisa 40 milioni di volte in poche ore. C’è un contrasto stridente tra la realtà di quelle prime, tremende, immagini e l’artificialità della seconda condivisa. Non ho un’opinione precisa, in merito: detesto l’attivismo pigro (slacktivism, in inglese), ma dall’altro lato il fatto che decine di milioni di persone abbiano, magari per la prima volta nella loro vita, realizzato da che parte stare in questa guerra che guerra non è, mi accende una flebile speranza per le coscienze future. Nell’intervallo tra questi due giorni, su Channel 4, usciva il primo lungometraggio girato su Gaza, a Gaza, da un gruppo di 12 giornalisti palestinesi. Si chiama Kill Zone: Inside Gaza. Vederlo (dura un’ora esatta) mi ha fatto pensare all’importanza di possedere, finalmente, una narrazione non frammentaria ed effimera dell’orrore che, da almeno otto mesi, Israele sta infliggendo a milioni di innocenti in Palestina.
L’invasione e l’assedio di Gaza, per chi frequenta certi social e in questi social non è chiuso in una bolla troppo ermetica, le vediamo raccontate attraverso continue clip: di bambini e adulti feriti, a volte morti e spesso disperati, di campi larghi con colonne di fumo che si alzano da quartieri densi di palazzi, o ancora di strade deserte in mezzo a città fantasma, distrutte dalle bombe. Ma sono, sempre, video tremebondi e amatoriali, di pochi secondi di lunghezza. Ci colpiscono, poi spariscono. Sono i social network, funzionano così. È evidente cosa mancasse, ancora, in questi otto mesi di guerra: una narrazione unica, lunga, coerente. Costruita. Qualcosa che non duri pochi secondi, ma sia destinata a rimanere. Serve perché ha un ruolo importante: testimoniare.
Kill Zone ha un arco narrativo che mostra alcuni giorni della famiglia Badwan, di Deir al Balah, dall’inizio dell’invasione, quando i missili e i tank israeliani sono ancora lontani (Deir al Balah è nella parte centro-sud di Gaza), poi la segue quando le bombe si avvicinano e Ziad, il padre di due bambine, dice: «Spero che non arrivino qui», finché alla fine, inevitabilmente, arrivano. A intervallare questa narrazione c’è lo scorrere cronologico degli eventi: la strage del 7 ottobre, all’inizio, e la rappresaglia che incomincia dal giorno dopo, con le bombe su 426 obiettivi nel nord della striscia, tra cui abitazioni e moschee. La voce di Yoav Gallant dice: «We are fighting human animals, and we will act accordingly». Un altro motivo per cui una narrazione come questa ci serviva: se qualcuno pensava che quelle di Gallant fossero parole dirette a Hamas, dopo otto mesi di massacri sembra chiaro che possano riferirsi, nel suo cuore, all’intero popolo palestinese.
In meno di un mese dall’invasione, raccontano i testimoni, si raccolgono già più di 8.500 morti. Quasi il 70 per cento sono donne e bambini. I footage che intervallano la storia della famiglia Badwan mostrano le bombe che cadono, e soprattutto i loro effetti: sembrano quindi un mosaico a cui ci stiamo abituando già, fatto di pezzi di arti, volti infangati e insanguinati, bambini paralizzati nei tremori dello shock, e soprattutto ospedali pieni, ospedali devastati, ospedali che fremono di attività disperata. Messi tutti insieme, però, mostrano quello che manca dalla fruizione singola, casuale e poco attenta a cui ci costringono i social network: la sistematicità. La sistematicità dei bombardamenti, la sistematicità delle menzogne del governo israeliano, la sistematicità delle uccisioni di civili. Riecheggiano ancora le parole di Gallant: «We are imposing a complete siege of Gaza», e in quella parola, “assedio”, riconosciamo echi medievali, di guerre condotte con l’arma della fame oltre che con le spade, il terrore claustrofobico della trappola.
La vita va avanti, per quanto può. Ma i protagonisti delle immagini ci appaiono sempre più magri, e deboli, e disperati. Molti non hanno più una casa né una città. Devono migrare, è un ordine: come se Gaza fosse un enorme Hunger Game. Una donna spiega che nasconde il pane nel reggiseno per riuscire a portare quel poco che trova a casa al sicuro. Poi, la tragica geometria delle bombe: i bambini, racconta un soccorritore, a volte sopravvivono ai crolli degli edifici meglio degli adulti perché hanno corpi piccoli che riescono a stare tutti negli spazi vuoti tra una maceria e un’altra. L’ordinario è anche il ronzio dei droni, una forma diabolica di tortura psicologica, che infesta le notti e i giorni dei palestinesi. Nasce anche, a Gaza, una nuova terminologia: WCNSF, che vuol dire Wounded Child, No Surviving Family. Se i sacchi dei cadaveri negli ospedali sono pieni delle scritte “donna, non identificata”, i letti sono pieni di bambini che non si sa di chi siano, non parlano più.
Daniel Hagari, ammiraglio e portavoce dell’Idf, intima ai palestinesi di migrare altrove, sempre altrove: «To the residents of Gaza City: your window to act is closing». Suona minaccioso, in realtà non è nemmeno una minaccia: è una bugia e una trappola. Bombarderanno anche i corridoi umanitari, bombarderanno le ambulanze, bombarderanno gli ospedali e i civili in fila per il pane. Bombarderanno tutto.
In questi giorni mi trovo a leggere una raccolta di Daniele De Giudice chiamata Del narrare, sono diversi interventi saggistici sulla letteratura e su alcuni autori, italiani e non, per lui fondamentali. Il primo è dedicato a Primo Levi, e all’importanza della testimonianza. (Mi avvicino a questo paragone con una certa paura per l’isterismo delle reazioni, ma forte delle parole di Masha Gessen pronunciate nel discorso per l’accettazione dell’Hannah Arendt Prize: «Why do we compare? We compare to learn. Comparison is the way we know the world»). In una guerra con così tante bugie, in un’epoca con una soglia dell’attenzione e dell’approfondimento così spaventosamente bassa, un documentario come Kill Zone è fondamentale perché è qualcosa che può rimanere, e diffondersi, e testimoniare delle atrocità quando qualcuno se ne dimenticherà, quando qualcuno le negherà, quando qualcuno non crederà o vorrà sforzarsi di non vedere. Già adesso, quindi. Quando si parla di Palestina, spesso, si tende a credere alla versione del più forte. Ai “tragici errori” di cui parla, ogni volta che una strage è troppo grande per poter essere ignorata, Benjamin Netanyahu. Ai corridoi umanitari sicuri, che non verranno bombardati e invece poi sì. A chi dice che in quell’ambulanza colpita da un missile c’erano dei dirigenti di Hamas e invece no, erano solo dei civili inermi. Ecco, Del Giudice ricorda Levi che raccontava di quando, nel campo, i militi delle SS si divertiranno a tormentare i prigionieri: «In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà». A questo serve un documentario come questo.
Kill Zone dà una voce ordinata a chi è sotto assedio, ed è un po’ più difficile da ignorare di un post sui social. Per il momento è disponibile soltanto nel Regno Unito, e alcune scene girano già su Instagram e TikTok. È fondamentale, tuttavia, che venga visto e diffuso come si sono sempre viste e diffuse – anche clandestinamente – le cose importanti. Ci sono molti modi, insomma, per vederlo. Mi auguro possa anche darci una flebile speranza affinché altri Stati europei, dopo Spagna, Norvegia e Irlanda, facciano dei passi concreti per fermare il massacro a Gaza. Per umanità, per poter costruire in futuro un’architettura di responsabilità e condanne, e anche un po’ per la nostra coscienza: per non doverci vergognare di questa Europa come è già successo in passato, e non doverla ricostruire da capo, ancora una volta, sulle macerie morali della nostra cecità. L’augurio finale è quello che pronuncia l’anziana madre di Ziad Badwan quando anche la loro casa viene bombardata dall’IDF: che possa Netanyahu essere inghiottito da una balena.