John Baldessari e la fotografia come sabotaggio del senso comune

La mostra No Stone Unturned, dal 6 maggio alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, è un invito a cambiare prospettiva e a non fidarsi né del primo sguardo né dell'ultimo.

05 Maggio 2025

Immaginate di essere un artista che vive nella Los Angeles degli anni Sessanta. Un periodo in cui il confine tra arte concettuale e fotografia è tanto evanescente quanto il tempo tra due battiti di ciglia. È qui che John Baldessari, stella assoluta dell’arte contemporanea, decide di giocare con ciò che è noto e consolidato, mescolando le carte e rimescolandole finché non ha l’impressione di aver trovato il gioco definitivo. Perché Baldessari non è stato solamente un artista, ma anche un filosofo del visibile, un provocatore delle certezze. E in questo gioco, l’immagine, lungi dall’essere una mera rappresentazione della realtà, diventa il terreno di una sfida intellettuale, uno strumento per decostruire il mondo e la sua tradizionale narrazione visiva.

La mostra No Stone Unturned – Conceptual Photography, in scena alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia dal 6 maggio al 23 novembre (proprio nei giorni della Biennale Architettura), celebra questa incessante ricerca: un viaggio lungo decenni in cui l’arte, la fotografia, le parole e i significati si intrecciano, si confondono e si rivelano. Un’occasione preziosa per ripassare – o scoprire – come la fotografia possa diventare strumento, mezzo, ma anche sabotaggio del senso comune. Ma anche una riflessione profonda su come l’arte può sfidare le convenzioni e ampliare le possibilità della percezione. Il titolo stesso, No Stone Unturned – “Nessuna pietra lasciata intatta” – è un indizio del metodo di lavoro di Baldessari: ogni pietra, ogni dettaglio, ogni convenzione visiva deve essere rovesciato, esaminato, messo in discussione. «Non riuscivo mai a capire perché la fotografia e l’arte avessero storie separate», amava ripetere Big John (era alto quasi due metri), «così ho deciso di esplorare entrambe».

Nato nel 1931 a National City, centro ad una manciata di chilometri da San Diego, in California, John Baldessari ha avuto un impatto profondo sulla scena artistica mondiale, sviluppando un linguaggio unico che mescolava la serietà dell’arte concettuale con il gioco e l’ironia. Una delle caratteristiche più affascinanti del suo lavoro è proprio l’irriverenza con cui trattava gli oggetti quotidiani, le parole e le immagini che ci circondano. Ogni suo dipinto o video era un esperimento. Un modo per mettere in discussione le certezze e aprire nuove strade alla comprensione del mondo che ci circonda. Non è un caso che la fotografia, che per molti è solo un mezzo di riproduzione, diventi per lui una chiave di lettura del reale, una lente attraverso cui esplorare le sue infinite ambiguità. L’istantanea non è mai un atto di registrazione neutrale, ma una forma di interrogazione, una sfida costante.

John Baldessari Scenario: Storyboard (Version A), 1972–73 © John Baldessari 1972–73. Courtesy Estate of John Baldessari © 2025, Courtesy John Baldessari Family Foundation; Sprüth Magers

Durante gli anni Settanta e Ottanta, il concetto di fotografia come strumento di decostruzione diventa sempre più evidente nel suo lavoro. No Stone Unturned espone alcune delle sue serie più significative. Prendiamo ad esempio le sue “Commissioned Paintings” del 1969. L’idea è semplice, almeno in apparenza: ritrarre un dito che indica un oggetto qualsiasi e farne fare una copia a olio da un pittore professionista. Poi aggiungere, a caratteri da insegna, il nome del pittore (quello vero, non il suo). Risultato? Una beffa seria, un corto circuito sull’idea stessa di originalità e firma. Chi è l’autore? L’esecutore? Il dito? L’oggetto? La didascalia? Una performance concettuale in forma statica, che funziona ancora oggi come una spina nel fianco per ogni idea romantica di genio creativo. Così facendo, Baldessari non solo mette in discussione la paternità dell’opera, ma ci obbliga a riflettere su cosa sia veramente un dipinto, su come la pittura e la fotografia possano essere strumenti intercambiabili, e su come la nostra attenzione possa essere indirizzata e manipolata attraverso il linguaggio e l’immagine. Un gioco intellettuale che, con una punta di ironia, ci ricorda che tutto è soggetto a trasformazione, a reinterpretazione.

Un anno dopo, nel 1970, Baldessari darà fuoco a tutti i suoi quadri, li brucerà in pubblico, ne metterà le ceneri in un’urna, dichiarando: si ricomincia. Una rinascita spettacolare. La mostra a Venezia documenta proprio quel momento di svolta. Fotografie seriali, esercizi al limite del dadaismo, giochi didattici diventati opere. Come “Throwing Three Balls in the Air to Get a Straight Line” (1973), dove Baldessari si diverte a scattare raffiche di palle lanciate in aria, cercando invano di ottenere – appunto – una linea retta. Ovviamente non ci riesce. Ma la cosa importante è che ci prova, e che documenta il tentativo. In fondo, è tutta lì la sua poetica: il fallimento come linguaggio, l’errore come forma, il gesto assurdo come via per aprire un varco.  Se oggi molti artisti si lanciano in performance concettuali da TikTok, è anche (e soprattutto) perché Baldessari ci è passato prima. Solo che al posto dei like, raccoglieva ambiguità.

John Baldessari, Bird/Plane/Bird, 1971 © John Baldessari 1971. Courtesy Estate of John Baldessari © 2025, Courtesy John Baldessari Family Foundation; Sprüth Magers

Tra le opere più emblematiche in laguna ci sono anche le “Kissing Series”, sequenze fotografiche dove due elementi “si baciano” visivamente, toccandosi appena. Un’idea tenera e chirurgica insieme, che lavora sul bordo e sul contatto, ma anche sulla distanza. O le “Blasted Allegories”, nate da fotogrammi televisivi stampati a intervalli regolari e accoppiati con parole completamente arbitrarie. Messaggio: il senso è una costruzione fragile, soggetta a combinazioni e contaminazioni continue. E che non sempre bisogna cercare un perché: a volte basta un “percome”. C’è anche spazio per la serie “Police Drawing”, dove l’artista si fa ritrarre da un disegnatore della polizia basandosi sulle descrizioni di studenti che non l’avevano mai visto. Un ritratto mediato, fantasioso, che parla più della percezione che del soggetto. Una forma di autoritratto via terze parti, con un tocco da romanzo di Kafka aggiornato all’epoca pre-Google.

Tutto, nella sua arte, sembra semplice finché non ci si pensa davvero. Poi si apre una voragine. E invece di cercare di chiuderla, Baldessari ci invita a guardarla meglio. Diceva: «Forse mi annoio facilmente. E grazie al cielo, perché non voglio passare tutta la vita a battere solo la stessa nota». La noia come carburante creativo, la distrazione come metodo. La fotografia – intesa nel suo lavoro come collezione di immagini trovate, scattate, orchestrate – diventa uno specchio che riflette il nostro terrore del caos. Ma con leggerezza, mai con supponenza. Come in quei film dove il protagonista fa una cosa incomprensibile ma irresistibile, e tu pensi: «Boh, non so cosa significhi, eppure funziona…».

Baldessari ci invita quindi a guardare il mondo con occhi diversi, a mettere in discussione ciò che vediamo e come lo vediamo. Ci chiede di non accontentarci di risposte facili, di non fermarci alla superficie delle immagini, ma di scavare più a fondo, cercando di decifrare le infinite possibili letture di un’opera. Con il suo spirito irriverente e la sua straordinaria abilità nel manipolare le convenzioni artistiche, continua a sfidarci, ci spinge a non arrenderci mai alla banalità. No Stone Unturned è un invito a cambiare prospettiva, a leggere le immagini come testi e le parole come immagini. A non fidarsi troppo del primo sguardo, né dell’ultimo. Perché, come Baldessari sapeva bene, a volte un dito che indica non serve per spiegare. Serve per farti guardare altrove.

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