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L’eterno ritorno dei jeans skinny

Dai veri indie ai nostalgici dell'indie, da Alexa Chung a nostra madre che li mette con il Centogrammi, dagli emo ai trapper: le tante vite del capo d’abbigliamento più attillato del mondo.

di Alice Valeria Oliveri

«You never end your quest for denim» dice Alexa Chung mentre tiene in mano un paio di Levi’s 501. Li ha trovati nell’armadio di Camille Charriere, modella francese che rivela il segreto alla base di un paio di jeans perfetti: devono essere scomodi. Niente materiale elasticizzato, nessuna cucitura morbida, i jeans, il capo d’abbigliamento più comune e al contempo quello più emblematico del passaggio delle mode sotto ai nostri occhi di consumatori che credono nei caratteri ontologici delle generazioni e dei decenni, devono fare male per stare bene. Che il jeans, con la sua natura proteiforme, sempre identico pur mutando il paradigma, sia la reificazione delle correnti culturali del secondo Novecento, nonché l’abito feticcio che più di tutti incarna lo spirito del tempo, è un dato di fatto: a cosa pensiamo quando immaginiamo un look anni Settanta, Ottanta o Novanta? Ai jeans a zampa di Farrah Fawcett sullo skate, ai paninari con la vita alta El Charro, ai 501 lacerati di Kurt Cobain.

Poi vennero gli anni Zero, e con loro gli skinny. Le tracce germinali di questo modello, ovviamente, sono sparse ovunque nel ventesimo Secolo, il secolo in cui abbiamo tolto i pantaloni resistenti alla working class e li abbiamo messi nel nostro armadio: persino Don Draper, nell’ultimo famosissimo episodio di Mad Men, ne indossa un paio. Da Elvis the Pelvis al pube di Robert Plant, dalle gambe a stecco dei Sex Pistols a Freddie Mercury col pacco in vista, le grandi icone pop hanno indossato pantaloni aderenti, a vita alta, a vita bassa, a zampa o a sigaretta, anticipando il trend ma mancando dell’elemento principale che fa la sostanza di cui sono fatti gli skinny, ossia l’elastan. Mentre il ventunesimo Secolo iniziava tra i simulacri di Baudrillard, il millennium bug e le pillole di Neo, i pantaloni ci si stringevano addosso, sempre più elasticizzati. Il cargo anni Novanta si rimpiccioliva, la vita bassa diventava «un segno antropologico tribale ed elettorale», come la definiva Alberto Arbasino nel saggio che prende il nome dal trend che ci ha spezzato le reni, letteralmente, tra perizomi in vista e mutande Calvin Klein.

L’aspetto interessante degli skinny, dal momento in cui piombano sul mercato e divorano ogni competitor, è la loro trasversalità. Sono i jeans degli emo, la sottocultura del Duemila che ha fatto della sensibilità il suo tratto di forza, rinunciando alla visibilità in favore di grandi ciuffi piastrati, sdoganando anche una certa fluidità nel vestiario unisex che confluisce in un grande calderone di cuteness, unghia smaltate, matita nera, piercing, selfie grandangolari, Bill Kaulitz e Jared Leto. Dall’altro lato della barricata, ci sono i truzzi, i protagonisti di format com Jersey Shore o i ballerini di Tecktonik, i nostri Costantino Vitagliano e Daniele Interrante, versione metrosexual o versione torpedone di Italia 1 Tamarreide: se gli emo si lanciano sul nero, i tamarri osano col bianco, abbinando all’attilatismo militante sneakers di vario tipo, dalle classiche Nike al filone più elegante, Hogan e Prada America’s Cup. Che cos’è, infatti, lo skinny se non l’anello mancante tra i pariolini e i coatti, il punto di congiunzione tra la borgata e Ponte Milvio, koiné che unisce liceo classico e istituto professionale?

E poi, chiaramente, c’è la categoria che oggi imperversa nei caroselli di Indie Sleaze e nelle riviste di moda che ci assicurano che la moda Y2K ha fatto il suo ritorno. Se la pop culture è morta nel 2009, come recita il titolo di un famosissimo blog a tema, anche il mio fidanzato del liceo stava facendo la stessa fine in quell’anno, impigliato in un paio di Cheap Monday che non andavano né su né giù. Me lo ricordo come fosse ieri, il sudore che grondava dalla sua testa e negli occhi la disperazione di chi voleva a tutti i costi lasciarsi stritolare da un paio di pantaloni come se fossero un pitone albino. La persona a cui voleva somigliare era Julian Casablancas, e come lui tanti altri giovani alternativi che a suon di mixtape, baffi eccentrici, bici a scatto fisso e musica indie nutrivano le fila dell’hispteria. Da American Apparel a 7 for All Mankind, non c’è niente che gridi moda indie anni Zero più forte di un paio di jeans skinny che avvolgono le cosce di Alexa Chung e Alex Turner in giro per Londra, di Agyness Deyn e Albert Hammond Jr in giro per New York o di Pete Doherty e Kate Moss in giro per la noche loca festivaliera e sporca di fango di Glastonbury.

Alla luce di questa breve ricostruzione, prima di arrivare al presente e al tema che attanaglia gli skinny proprio come loro strizzavano le gambe di un membro a caso dei Franz Ferdinand, è bene precisare una cosa: per quanto il mondo ci voglia far credere che sia così, questi pantaloni non sono mai passati di moda. Potremmo anche aver archiviato i nostri teschietti e le cinture borchiate, parcheggiato la macchina cinquanta e abbandonato le t-shirt con scritte in codice alfanumerico in stile Luca Dirisio, ma esiste un blocco compatto di indossatori di skinny che non ha nessuna intenzione di abbandonarli, perché gli skinny ci sono entrati nel Dna con la proteina della vestibilità. Li ha messi nostra madre con il Centogrammi, l’agente immobiliare con la caviglia di fuori, la nostra collega di università con lo zainetto Liu Jo, li indossano Sigfrido Ranucci mentre presenta Report e Pier Silvio Berlusconi al funerale di suo padre. Pratici e facili, gli skinny hanno dato una soluzione al problema che spesso affligge i jeans classici, e per questo sono i pantaloni più democratici in commercio. Ma come tutte le cose trasversali e popolari, anche loro si sono trasformati in un terreno di battaglia.

Non so in che momento il mercato occidentale abbia deciso non solo che esistevano le generazioni – quello in realtà si sa, da quando esistono i giovani come categoria di consumatori, ossia dal dopoguerra in poi – attribuendo a ciascuna di queste sezioni anagrafiche un carattere e dei difetti, ma anche che le suddette generazioni fossero una contro l’altra, e non in senso sessantottino. Quando avevo vent’anni, ossia dieci anni fa, non avevo idea di cosa fosse la Generazione X, né tanto meno mi sarei sognata di mettermi in contrapposizione con quelli che oggi sono i quaranta-cinquantenni per dimostrare che Harry Potter è meglio di Anakin Skywalker e che guardare la Melevisione durante il crollo delle Torri Gemelle sia in qualche modo un tratto distintivo della mia personalità. Poi però è arrivato TikTok, e da là è stato tutto un Ok Boomer, un Gen Z vs Gen Y, e qualsiasi altra tifoseria ci consenta di esprimere il nostro dissenso attraverso un bottone da schiacciare sulle piattaforme in possesso dei peggiori miliardari del tech. In questa conformazione della realtà polarizzata in tutto, bisogna scegliere se si è brat o demure ma soprattutto se le cose che si indossano sono giuste o sbagliate: i jeans skinny sono sbagliati. O meglio, sono roba da Millennial, e gli zoomer si sa, odiano i millennial perché sono indolenti e mangiano avocado.

Il cambio di umore nei confronti degli skinny si è così configurato in una battaglia generazionale che vede il capo d’abbigliamento più attillato del mondo un nemico da abbattere, un po’ come il cambiamento climatico e JK Rowling. C’è chi attribuisce il cambio di paradigma dei jeans anche alla pandemia, al fatto che ci siamo abituati a fare le riunioni su Zoom e la scuola in DAD, e che che di metterci i pantaloni stretti proprio non ci va – le parole di Alexa e Camille rimbombano lontane –, sta di fatto che, come ha raccontato la prestigiosa testata Dazed, persino i quattro ragazzi al centro commerciale di Birmingham, protagonisti di un famoso meme del 2019, tutti e quattro rigorosamente in skinny, nel 2024 si ripresentano sulla scena del delitto indossando solo cargo. Ma è davvero così? I ventenni non ne vogliono più sapere di stritolare la vena safena dentro a un tessuto sintetico?

«Nemmeno ti ascolto, non ascolto i tuoi bisbigli, snake attorno, tentacoli come Squiddi, non richiamarmi quando tornerai agli skinny» canta Tony Boy, trapper classe 1999, punta di diamante della nuovissima leva e grande indossatore del modello attilato, come molti altri suoi colleghi. Se c’è una cosa che possiamo imparare del Novecento, oltre al fatto che i jeans si lavano al contrario, è la lezione del materialismo storico: non c’è prodotto culturale che non sia sintomo. E quale miglior prodotto culturale per comprendere lo spirito dei più giovani se non il genere musicale che per eccellenza serve a far alzare il sopracciglio ai critici musicali boomer da salotto televisivo, proprio quelli in skinny, camicia e gilet? La trap, la musica dei giovani, parla chiaro: c’è un punto di contatto tra Millennial e GenZ e quel punto sono proprio loro, i pantaloni che fanno tanto Harry Styles nel 2011, o Marissa Cooper nel 2004, o qualsiasi altro ex giovane che nel decennio di Berlusconi e della grande recessione ha strizzato le sue gambe in un tessuto sintetico, che fosse un emo, un truzzo, un hipster o un componente dei Baustelle – «È la scritta Calvin Klein, è la firma D&G tatuata sugli slip sopra la vita dei jeans, che quest’anno va bassa, va bassa», cantava Bianconi nel 2005. Del resto, tutto fa il giro, persino una canzone degli Yeah Yeah Yeahs, Maps, che diventa un trend su TikTok, e viene usata da Tony Boy e Gaia Bianchi, la sua fidanzata influencer da milioni di follower, nata nel 2004, che degli skinny di Karen O e del clubbing newyorkese di inizio millennio probabilmente non sa nulla, ma che alla fine in qualche modo ci finisce dentro, alla faccia del conflitto generazionale.