Palma d'oro a Cannes, serissimo candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, nel suo nuovo film il regista immagina gli iraniani alle prese con l'inimmaginabile: quello che succederà dopo la fine della Repubblica islamica.
Per un regista fresco di Palma d’Oro a Cannes e in corsa verso gli Oscar, stare seduti in una stanza di un hotel per rispondere alle domande della stampa dovrebbe essere la normalità. Non lo è invece Jafar Panahi, la cui vita e carriera sono state inesorabilmente ostacolate dai capricci del regime iraniano. Dopo la vittoria a Cannes, Panahi ha potuto presentare Un semplice incidente di persona ai festival di Telluride, Sydney e poi alla Festa del Cinema di Roma, in un momento di insolita distensione della stretta che da sempre il governo del suo Paese esercita su di lui. Dal 2010 a oggi, ha messo a segno un record cinematografico raggiunto solo da lui tra i cineasti viventi, cioè quello di vincere i tre grandi festival del Vecchio continente: Berlino, Cannes e Venezia. Spesso, però, in suoi film, in questi festival, venivano proiettati in sua assenza.
Specie dal 2010, quando il governo iraniano gli ha proibito prima di viaggiare e poi di fare cinema: divieto puntualmente ignorato da Panahi. Divieto che ha formato i suoi film successivi, talvolta girati in condizioni di semi clandestinità, e che lo ha costretto ad approfittare di limitazioni e dinieghi (suoi, dei colleghi incarcerati, dei conoscenti e amici grazie a cui ha messo insieme pellicole come Gli orsi non esistono e Taxi Teheran) per fare grande cinema. Nel luglio del 2022 questo uomo minuto, con lo sguardo sempre nascosto dietro un paio di occhiali da sole squadrati, che mentre gli parlo affonda in un divanetto dorato nella stanza di un hotel romano, sedeva in una cella del carcere di Evin, assieme ad altri dissidenti politici iraniani. Lì ha trascorso sei mesi, fino a quando, dopo uno sciopero della fame e la mobilitazione internazionale del mondo del cinema, è stato liberato.
Fuori da quelle mura si è portato dietro una matassa di emozioni, incontri e riflessioni che gli ci è voluto tempo per sciogliere, trasformandole nelle linee narrative di Un semplice incidente. Un film nato dietro le sbarre, che ha dentro la sua esperienza e le storie di quanti erano a Elvin con lui, ma che guarda oltre: oltre la cella, oltre il regime, fino a interrogarsi sul “dopo”, su come e da chi potrà essere ricostruito l’Iran. Un esito sorprendente per un film che prende le mosse da un rapimento – quello di un presunto interrogatore/torturatore della polizia militare iraniana, riconosciuto da una delle sue vittime e sequestrato da un gruppo di ex carcerati in cerca di verità. Il dubbio sulla sua identità – è davvero lui o si tratta di un errore? – percorre tutta la storia, insieme al confronto tra le sue vittime, che si pongono le stesse domande che un giorno, forse, dovrà affrontare anche l’Iran.
ⓢ Vorrei partire dal futuro. Mi ha colpito molto come Un semplice incidente guardi oltre, al domani dell’Iran, dando quasi per scontato che sarà molto diverso dal presente, che in breve tempo il regime non sarà più lì. Da dove nasce questa sua sicurezza? Perché fare un film monito su cosa fare nel dopo regime?
Era esattamente quello il mio intento: con Un semplice incidente volevo proprio far pensare lo spettatore a quello che succederà, quando succederà. Quando il regime sarà finito, e credo sia questione di tempo, si spalancherà un futuro incerto in Iran. Mi sono domandato se, una volta posto fine all’Iran come lo conosciamo oggi, questo circolo vizioso della violenza che lo caratterizza scomparirà. Credo non sia scontato, anzi: c’è la possibilità che la violenza aumenti ma anche che la nazione sia in grado di interrompere l’infinito ritorno della prevaricazione. Non c’è un solo futuro possibile. Spezzare il circolo della violenza è però il presupposto necessario per creare un futuro migliore e è riuscirci bisogna già pensarci ora. Quando arriverà quel momento, dobbiamo farci trovare pronti.
ⓢ Che tipo di spettatore si è immaginato avrebbe recepito questo suo monito? L’impressione è che voglia estenderlo oltre il pubblico iraniano, che voglia parlare anche a chi vive fuori dall’Iran, non solo per descrivergli che sta succedendo ora nel paese, in un momento geopolitico che a molte latitudini rende l’Iran meno lontano, politicamente parlando.
Un’artista, quando crea un’opera, deve prima di tutto realizzare ciò che sente necessario. Questo vale per qualunque prodotto artistico: è questo il mio credo. Poi, solo in un secondo momento, potrà anche riuscire a convincere gli altri del suo valore, stimolare la riflessione. Credo che storie di questo genere trovino sempre il loro pubblico, perché nel mondo c’è sempre chi conosce intimamente questo tipo di realtà. Ovviamente in questa riflessione è coinvolto anche chi invece non ha esperienza di questo tipo di cornice politica. Tuttavia, da cineasta ritengo che non si possa decidere all’inizio “questo film sarà solo per gli iraniani” o “voglio che si rivolga soprattutto agli stranieri”. Dico spesso che io faccio cinema sociale: una delle sue componenti fondative è che ha a che fare con l’umanità delle persone, e l’umanità, in tutto il mondo, trova il suo spazio per essere compresa.
ⓢ È molto forte il modo in cui ha appena descritto il suo processo creativo. Tanti autori parlano del bisogno di raccontare al pubblico qualcosa come del principale sprone dietro al loro scrivere, mentre lei si descrive solo con la sua idea, impegnato a convincere sé stesso, dimentico di chi poi vedrà il suo film. È successo anche per Un semplice incidente? Ci pensava anche in carcere, a come sarebbe stato il film in cui avrebbe traslato quell’esperienza?
Facendo cinema sociale, prendo ispirazione da tutto ciò che mi circonda: dal contesto in cui vivo, da quello che vedo accadere intorno a me. Se lei fosse una regista qui, racconterebbe i problemi che conosce, nel bene e nel male, di questa società italiana in cui vive. Anche per me è così: conosco il mio Paese, la mia città, sono consapevole della loro natura perché ne ho esperienza ogni giorno.
Quando mi hanno arrestato e portato in carcere per sette mesi, tutto quello che ho visto lì dentro mi ha inevitabilmente influenzato. In quel momento non pensavo di farne un film, no. Una volta fuori, tutte le esperienze e le storie che avevo incontrato mi sono rimaste addosso e mi hanno ispirato.
ⓢ Mi permetto di contraddirla. Lei sembra così certo che chiunque, al posto suo, avendo la sua attitudine e il suo talento, dall’esperienza in carcere ci avrebbe tirato fuori un film. Per mia fortuna non ho modo di verificarlo, ma se devo essere onesta, credo che al posto suo avrei troppa paura per girare alcunché.
È una paura che sparisce quando inizi a fare il film, glielo assicuro. Prima di cominciare, quando non sei mai stato arrestato, provi paura. Quando vieni liberato, certo, capita di temere di essere arrestato di nuovo. Ma una volta che entri in carcere e vivi sulla tua pelle che significa stare in cella, quella paura paralizzante svanisce per sempre. Una volta che sei sul set, te ne liberi.
ⓢ Cosa c’è di autobiografico della sua esperienza nel carcere di Elvin in Un semplice incidente?
Alcune esperienze nel film sono modellate sulle mie — per esempio l’interrogatorio, che è un passaggio comune, praticamente obbligato per tutti quelli che sono stati in carcere in Iran. Invece molte altre vengono dai miei compagni di cella: alcuni erano lì da anni e raccontavano storie che avevano sentito a loro volta da chi li aveva preceduti e che avevano conosciuto durante la pena.
Quando sono uscito, come regista, vedevo davanti agli occhi tutti questi personaggi che incarnavano le differenti attitudini con cui sono entrato in contatto: chi voleva distruggere tutto per un torto subito, chi cercava un approccio non violento e finiva dentro per questo. Ricordo per esempio di essere stato molto colpito dalla storia di un semplice operaio che chiedeva solo un salario giusto e la sua colpa, agli occhi di chi l’aveva condannato, era quella. Tutti loro mi hanno ispirato.
ⓢ Rispetto ai suoi film precedenti, qui il regime ha un volto, ma soprattutto un corpo: stavolta c’è un personaggio che incarna il regime iraniano, o almeno così pensano i protagonisti. Un personaggio che, da subito, è raccontato in tutte le sue sfumature umane, tanto da riuscire a ispirare anche una certa empatia al pubblico.
Non si tratta di fare il tifo per una parte o per l’altra: è una tecnica narrativa, un gioco con lo spettatore, per portarlo fino al messaggio finale. È volutamente scritto in questo modo, per mantenere continuamente vivo nel pubblico il dubbio: è davvero uno del regime o no? È questo dubbio che alimenta l’interesse di chi vede il film. Prendi l’apertura, per esempio. Vediamo che Eqbal causa la morte di un cane investendolo con la macchina: ne è sinceramente dispiaciuto. Tuttavia poco prima ha zittito la figlia che canta e balla sul sedile posteriore, le dice di fare silenzio, che non sta bene, anche se stanno attraversando un lungo tratto di campagna senza un’anima in vista. Lo fa persino sottovoce: ecco, quella è l’ipocrisia tipica delle persone vicine al regime. Di fianco a lui è seduta la moglie incinta, che dice alla figlia sconvolta dalla morte del cane: “È stato un incidente, è la volontà di Dio. Dio ci ha messo davanti a questo cane per evitare eventi peggiori.” Da qui deriva il titolo del film: questo è un modo di pensare molto comune tra chi si nasconde dietro la religione per non affrontare la realtà.
