Attualità | Dal numero

Una nuova estetica per raccontare la fine del mondo

I lockdown e la crisi climatica prima, adesso le guerre in Ucraina e Medio Oriente: le immagini dei disastri sono quelle che più di tutte raccontano l’epoca che stiamo vivendo. E che ci preparano al futuro che ci aspetta.

di Davide Coppo

È l’assenza a provocare lo sgomento più profondo, ancora più che il caos. La tranquillità, e non il pandemonio. L’apocalisse ci colpisce davvero solo quando è finita: per questo riguardo spesso, su internet, le migliaia di fotografie del marzo 2020. I video delle città vuote. Le Zattere a Venezia senza una sola persona. I droni che sorvolano via della Conciliazione in una Roma deserta e bellissima. Le immagini di via Vittor Pisani, a Milano, con sullo sfondo quell’enorme Stazione Centrale tutta bianca sul suo piazzale vuoto. I ricordi che le prime settimane di quel marzo ci hanno regalato, a causa dei lockdown mondiali per contenere la pandemia di Covid-19, hanno aperto un filone estetico che non pensavamo di poter vedere nella realtà. Centinaia di film e di romanzi l’avevano immaginato – Dissipatio H.G. di Guido Morselli, La nube purpurea di M.P. Shiel, La strada di Cormac McCarthy con la traduzione cinematografica di John Hillcoat – ma vederlo dal vivo era tutta un’altra esperienza. Guardavamo quelle immagini, anzi, le percepivamo fuori dai nostri balconi, atterriti e insieme meravigliati. Questi anni di disastri più o meno naturali (è la natura che crolla, non sono naturali i motivi per cui crolla) stanno, come mai prima, spostando la nostra immaginazione sempre un po’ più in là.

Gli anni post-2020 sono quelli che hanno finalmente visto la crisi climatica diventare un argomento presente con costanza nel discorso pubblico. Non più, come era stato nel decennio precedente, un allarme lanciato da cassandre di tanto in tanto, ma un fatto un’innegabile presenza nella stanza. Se prima si trattava di accettarla o rifiutarla, nel 2024 quel passaggio è stato superato: la crisi c’è, e anche i partiti o governi più negazionisti non protestano più di tanto. Si tratta, piuttosto, di fare qualcosa o di non fare niente. Siamo arrivati a questo punto grazie alle catastrofi, naturalmente. Anzi, detto meglio: grazie alle immagini delle catastrofi. 

Il critico d’arte americano Jerry Saltz, in un lungo articolo in cui ricorda la sua fascinazione per “La zattera della Medusa” di Théodore Géricault, descrive l’opera come «a painting for a World in collapse». Il quadro è del 1818, la perfezione artistica ricercata dal neoclassicismo è ormai alle spalle, e oltre tre milioni di morti sono stati seminati nei campi d’Europa durante gli ultimi anni di guerre napoleoniche. I protagonisti del dipinto di Géricault navigano in un mondo di onde agitate senza l’ausilio di strumenti, una vela bianca sullo sfondo promette una speranza di salvezza che invece non si avvererà. Le onde, il mare e il cielo – giallo e grigio come nelle peggiori tempeste – stanno a raffigurare un universo sconvolto che non sa più ritrovarsi. Gli elementi naturali erano stati usati dal pittore come metafore del crollo di un ordine politico e un profondo sconvolgimento umano. Quegli stessi elementi naturali, oggi, sono gli attori protagonisti dell’irrimediabile disgregarsi del pianeta. Una rivolta che parte dalla natura e che, inevitabilmente, toccherà la politica.

Ma se “La zattera della Medusa” è un dipinto così rappresentativo di un’epoca, quale sarebbe un suo omologo contemporaneo? La risposta è difficile – lasciando da parte il cambiamento del ruolo dell’arte figurativa – perché le immagini del disastro ci circondano, costantemente. Per questo a colpirci, come nel caso del lockdown, è piuttosto la sua assenza. Più che un solo paesaggio (devastato e irriconoscibile), allora, al passo con l’estetica contemporanea che non riesce a limitarsi a un solo oggetto e a una sola immagine, potremmo creare un moodboard – un pattern – per descrivere la catastrofe in cui il mondo sta navigando.

Possiamo immaginare una griglia a mosaico, come se fosse il feed di un social network. Ci sarebbero innanzitutto tutti i toni rossi e neri degli incendi e del fuoco: in California, con le case bruciate, le foreste carbonizzate, le famiglie sfollate; in Australia, con gli animali rigidi e anneriti dalle fiamme; ma anche i vulcani dell’Islanda o delle Canarie, distese di lava scura con squarci brillanti color arancione che mangiano chilometri quadrati di campi, alberi, case, inesorabilmente. Poi altri tasselli, questa volta nei toni verdi e marroni, melmosi, delle alluvioni: in Pakistan, con le strade distrutte e 7 milioni di sfollati; in Cina, con intere pianure nascoste dall’acqua rugginosa; in Germania e Inghilterra, paesaggi che ingenuamente credevamo più pacifici e sicuri e invece, che sciocchezza, non è al sicuro nessuno. Poi dei pattern di resti di case, navi, lamiere, automobili, legna: a guardarli tutti insieme dall’alto sembrano quasi un pavimento a Terrazzo, fatto di tante pietruzze una diversa dall’altra, e invece sono i resti delle città in Bangladesh colpite dal ciclone Sitrang, le coste frullate dall’uragano Ian a Cuba e in Florida, la tempesta Nalgae nelle Filippine e il “Medicane” che ha distrutto le coste dell’Egitto. Ancora più sotto, i gialli e ocra della siccità: quella che ha schiacciato l’Europa nell’estate del 2022, definita da diversi osservatori la peggiore da cinquecento anni, che ha creato danni per 20 miliardi di dollari e fatto scoprire al Regno Unito cosa significa vivere con temperature superiori ai 40 gradi; quella in Iraq del 2022, che ha fatto scendere i livelli di Tigri ed Eufrate del 60 per cento rispetto all’anno precedente; quella in Sudafrica, in una crisi ormai decennale, con restrizioni all’accesso dell’acqua per la popolazione (ma non tutta).

L’estetica dominante in questo decennio post-Covid è quella del disastro: che sia naturale e climatico (ma comunque legato all’azione umana) o esplicitamente artificiale (le guerre in Palestina, Ucraina) ogni giorno incrociamo decine di video e immagini di incidenti. Questo renderà, alla lunga, la reazione alla catastrofe meno scioccante? Mi sembra che il problema principale possa essere piuttosto un altro: non tanto un’abitudine al disastro nel presente, ma un’abitudine al disastro nel futuro. Per molti anni, e giustamente, è stata utilizzata la metafora della rana e dell’acqua bollente per spiegare la mancanza di reazioni al cambiamento climatico. È quella storia che sostiene che una rana, immersa in un recipiente di acqua inizialmente fredda ma lentamente scaldata, finirà bollita senza nemmeno accorgersene, per il lento aumentare della temperatura. Quella rana eravamo noi, e il fuoco il cambiamento climatico: troppo lento, nel suo dispiegarsi, per darci l’urgenza necessaria per agire.

Eppure, in questi anni, gli eventi hanno preso un’accelerata esponenziale, e la catastrofe si è manifestata davvero in tutta la sua violenza. Così frequentemente che ne siamo confusi: gli incendi in California risalgono al 2020 o 2021? E quelli in Grecia, hanno mai saltato un anno? L’alluvione a Firenze e Prato era lo stesso anno di quella a Ravenna e Rimini? E quella nelle Marche? E il fango di Ischia? Sono eventi avvenuti tutti in mesi diversi, talvolta in anni diversi: ma sono così simili e così ravvicinati che, proprio come guardando un feed, perdiamo di vista i contorni specifici di ognuno, ci sfugge il particolare. La rana, d’un tratto, si è finalmente accorta che l’acqua si sta scaldando troppo: eppure è così circondata da immagini di pentole bollenti che non le sembra ci sia alternativa. Siamo ancora in grado di produrre rappresentazioni di un futuro che non sia catastrofico? Ho la sensazione che, almeno in Occidente, la decrescita del benessere di massa, unita all’apocalisse climatica che bussa con una costanza che prima non aveva mai avuto, abbia profondamente segnato il modo in cui immaginiamo il domani. La catastrofe è diventata l’unico orizzonte a cui guardare: perché se la catastrofe è diventata la costante del presente, come è possibile sognare un futuro in cui non lo sia?

Nel dicembre del 2015 l’artista Ólafur Elíasson ha collocato dodici grandi blocchi di ghiaccio in Place du Panthéon a Parigi. Il ghiaccio era stato staccato da un fiordo in Groenlandia, e l’opera voleva rappresentare gli effetti del riscaldamento globale. In un certo senso, e per parafrasare la recensione di Jerry Saltz al quadro di Géricault, un altro tentativo di rappresentare «un mondo al collasso». Ma se “La zattera della Medusa” è arrivata fino a noi, e duecento anni dopo la sua creazione un critico d’arte americano ha potuto ancora scriverne su un giornale, lo stesso non potrà succedere con l’opera di Eliasson: il ghiaccio, semplicemente, si è tutto sciolto.