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Il rito generazionale del viaggio in Europa in interrail
Esperienza diventata quasi mitica, l'interrail è stato il coming of age per i giovani che tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90 scoprivano l'Europa provando funghetti a Utrecht, bevendo calimocho a San Sebastián, esplorando Christiania e assaggiando birra belga, tutto in un unico viaggio.
Mille estati fa, quando avevi appena finito le superiori, tempo perfetto per non sapere cosa fare della propria vita e pianificare grandiosi progetti di disimpegno, e i cd, le cassette, i Nirvana, i 99 Posse, i Pantera, i tascabili di Manuel Vázquez Montalbán e Notturno indiano, le prime canne, le prime uscite serali, i primi amici che non sono compagni di classe, i primi faccio cose vedo gente: mille anni fa, appunto, nell’era post-riflusso, un’epoca così primitiva che cinismo e ingenuità potevano camminare a braccetto, si decideva quindi all’ultimo momento disponibile, fine luglio-inizio agosto, di partecipare al rito generazionale, l’interrail. Ho idea che esista ancora, e che anzi sia stato in qualche modo riscoperto, come succede a qualunque cosa, ma certamente l’era dei voli low cost, la grande stagione di RyanAir, diventata adesso vertenza sindacale permanente, ne aveva soffocato la portata immaginifica, quella del vecchio adagio letterario per cui non è importante arrivare, ma quello che provi durante il viaggio (frase che potrebbe aver detto Chatwin ma anche Gianluca Vacchi).
Vero viaggiatore, è così che un po’ si sentiva chi andava in interrail, con un biglietto che ti permetteva di girare mezza Europa – più zone sceglievi, più costava – e dove sostanzialmente si finiva per passare il 90 per cento del tempo in carrozze più o meno salubri (solo seconda classe, niente treni ad alta velocità), inebriati dalla possibilità di decidere dopo 6 ore trascorse ad Amsterdam di raggiungere Lisbona e poi da li di andare a Tolosa, e poi – perché no – giusto due giorni a Vienna e a Budapest, senza troppa logica. Ci sentiva europei prima che quest’idea di europeo esistesse veramente (e chissà se mai è esistita poi). Si facevano esperienze coi funghetti a Utrecht e il calimocho a San Sebastián (paesi baschi di grande moda in quegli anni, oggi sembrano invece un po’ passati); ci si convinceva che le leggende su Christiania fossero vere o si ripiegava sulla birra belga.
Nato cinquant’anni fa, nel 1972, come eredità dell’Eurail, simile pass ferroviario ma dedicato ai viaggiatori non europei, l’Interrail, come tutto, soprattutto in quegli anni, si diffuse in Italia con ritardo, ed esplose come moda tra la metà degli ‘80 e l’inizio dei ‘90. Surrogato dell’autostop per un generazione meno rivoluzionaria e più abituata al comfort, manteneva però quasi la stessa portata mitica. Sarà poi a sua volta sostituito, come rito necessario del coming of age europeo, dall’Erasmus, già più romanzo da curriculum vitae che di formazione. E poi i tempi sarebbero ancora cambiati. I voli a 19,99 quando sembrerà più importante arrivare che viaggiare (e dagli torto), la moneta unica invece dei mille cambi di valuta ai limiti della truffa da un confine all’altro, gli airbnb al posto degli ostelli della gioventù (altro grande capitolo leggendario della storia europea, infarcito peraltro da improbabili racconti di finzione del maschio italico). Oggi che i treni si chiocciolano su Twitter per segnalare ritardi e disservizi di ogni sorta e che gli aerei non è più detto che partano, si prova a immaginare quale mezzo di locomozione potrà mai incarnare lo stesso potere simbolico unificante. Qualcosa di elettrico magari, ma che non sia il monopattino.