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Non si può avere paura di morire andando in bicicletta a Milano

Dall'inizio del 2023 in città nove persone, tra ciclisti e pedoni, sono morte in incidenti: è la prova che Milano, al di là dello storytelling, è ancora lontana dalle altre capitali europee in termini di viabilità ecosostenibile e, soprattutto, sicura.

di Teresa Bellemo

Lo scorso 20 aprile a Milano pioveva molto. Nella tarda mattinata, in corso di Porta Vittoria, Cristina Scozia era morta sulla sua bicicletta a causa di un incidente con una betoniera. Volevo scrivere un articolo, visto che è un tema che mi sta a cuore e che non era la prima volta che accadeva una cosa del genere: poco tempo prima, a febbraio, in viale Brianza, appena superato piazzale Loreto, un’altra donna era morta nello stesso modo: un camion, lei su una bici, la svolta a destra, i famosi angoli morti. Non ero riuscita a scriverlo, avevo poco tempo e tristemente mi sono detta che l’avrei fatto la volta successiva. Perché alla fine ci sarebbe stata, un’altra volta. Non avevo dubbi che sarebbe accaduto di nuovo. Non avevo dubbi che sarebbe accaduto esattamente nello stesso modo. È successo ieri, 22 giugno, in piazza Durante, nel quartiere Casoretto, sempre a Milano. Ancora una volta, una donna in bicicletta, un mezzo pesante – anche in questo caso una betoniera – ancora a causa degli angoli morti che già dal nome anticipano che non andrà bene se ci si trova da quelle parti. In realtà a maggio era successo ancora, in via Comasina. Tra ciclisti e pedoni, da febbraio 2023, a Milano sono morte nove persone.

Non avevo dubbi che sarebbe accaduto di nuovo perché se ci si muove in bicicletta, a Milano, si deve mettere nel conto di non distrarsi mai. Serve anticipare il pericolo, prevedere le svolte a destra, i restringimenti, le frecce mancate. Serve tenersi lontani da autobus, camion, furgoni. Non basta stare a destra, come i nostri genitori ci hanno detto la prima volta che ci hanno portato per strada in sella a una bicicletta tutta nostra. Il rischio esiste sempre. C’è l’auto parcheggiata in doppia fila, qualcuno che apre la portiera senza prima guardare, la rotaia del tram, il pavé dissestato, la buca. Non puoi nemmeno pensare che se sei in una pista ciclabile tu ti possa considerare al sicuro: non sono quasi mai isolate davvero dal resto della strada, sono disegnate sull’asfalto, oppure sono condivise con i pedoni, incrociano altre strade di continuo. Poi devi pensare a quali strade fare per evitare i percorsi più pericolosi. Per non percorrere lunghi tratti dove le auto corrono molto, dove in curva si ha poca visibilità, dove ci sono tanti mezzi diversi, dove il manto è dissestato. Dove ti senti di essere oggettivamente nel posto sbagliato anche se avresti pieno diritto di essere dove sei.

Lo so perché lo devo fare ogni giorno. Lo so perché chi si muove in bicicletta a Milano lo deve fare ogni giorno. Quando si parla di questi temi quasi sempre qualcuno dice che “Milano non è una città in cui andare in bicicletta”. Sono ragionamenti che spesso vengono fatti con una certa naturalezza. Li ho sentiti tante volte, non soltanto per parlare di quanto sia difficile muoversi su due ruote in città. Assomigliano tanto a quando mi dicono di non tornare a casa da sola, la notte. Di non passare in certe zone della città, di mandare un messaggio quando sono arrivata. Di non vestirmi in un certo modo se poi so che devo tornare tardi. Sennò me la vado a cercare, la brutta avventura. Che non è detto che accada, ma se accade beh, sono una donna, ci potevo un po’ arrivare prima, no?

Ecco, l’assurdo di queste consuetudini, che vedono alcune parti della società come “soggetto debole”, danno per scontato che sia quest’ultimo a doversi tutelare, quando invece dovrebbe essere – in caso, anche se sono dell’idea che sia antropologicamente utile pensarci tutti sullo stesso piano – esattamente il contrario. Tutto questo succede dappertutto, ovviamente, ma a Milano, nella città dove vivo, in quattro mesi sono morte quasi dieci persone più o meno allo stesso modo. Sono morte nove persone nella città italiana che si vanta di essere tra le più evolute d’Europa, la più internazionale, il vero collegamento tra il nostro Paese e il resto del mondo, polo di innovazione, di fermento culturale, progresso sociale, laboratorio per l’Italia del futuro a livello urbanistico, di inclusione e diversità. Purtroppo però in queste occasioni sembra che questi elementi siano soprattutto utili per costruire l’“awareness” del brand Milano, per fare “storytelling” attorno ad esso, più che essere delle reali linee guida attuate e attuabili in un’ottica di evoluzione della città. Intanto però le altre città europee, quelle a cui Milano si paragona, stanno investendo moltissimo per rendere concreta una città di maggiore prossimità, incentivando l’utilizzo delle biciclette e dei mezzi pubblici come reale alternativa alle auto, anche disincentivando economicamente l’utilizzo di queste ultime. Parigi è attraversata da 1100 chilometri di piste ciclabili (quintuplicate in 20 anni), buona parte del territorio comunale è zona 30 e ha l’obiettivo di essere 100 per cento ciclabile entro il 2024, anno delle Olimpiadi. A Londra nel 2022 sono circolate più biciclette che auto nel territorio cittadino. A Berlino ogni giorno 400 mila ciclisti si muovono su una delle reti più capillari d’Europa, che mira entro il 2030 a raggiungere i 30 mila chilometri, con piste “ad alta velocità” dedicate alle biciclette. Al momento a Milano le piste ciclabili sono in tutto 300 chilometri, di cui solo 100 a uso esclusivo delle bici per un territorio comunale di 183 chilometri quadrati (Roma è grande 1287, Parigi 105, Londra 1572 e Berlino 892 km quadrati).

Da questo punto di vista il cambiamento di Milano sta avvenendo ancora molto timidamente, in un modo che sembra ancora troppo lento rispetto alla crescita della città, ai nuovi bisogni dei suoi abitanti e di una concezione più evoluta (postpandemica?) di vivere gli spazi cittadini. Forse anche per questo da qualche mese serpeggia una certa disillusione, quella cosiddetta vibe-shift attorno al miracolo Milano. Ci si guarda intorno e ci si chiede: ma questa città raccontata, più vivibile, europea, dov’è davvero? Abbiamo bisogno di ripensare Milano e le grandi città a livello organico. Non basta fare il restyling ai singoli quartieri o semplicemente rinominarli con degli acronimi cool, pitturare di azzurro l’asfalto, aggiungere qualche arbusto in un vaso di pvc, un paio di panchine e chiamarle aree gioco. Abbiamo bisogno che per davvero i mezzi pesanti (aumentati del 60 per cento rispetto al 2022) possano accedere alla città in determinate ore del giorno e aree precise, muniti di strumenti che diano la possibilità di evitare tragedie come quelle di ieri e dei mesi scorsi. Abbiamo bisogno di una città a 30 chilometri, anche se il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, quando il Consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno che istituirebbe questo limite nell’area cittadina a partire da gennaio 2024, ha ricordato via Twitter che i milanesi «vorrebbero anche andare a lavorare». Veloci! Scattanti! Prima seconda! Rombo di motori!

Abbiamo bisogno di far percepire in maniera sempre più evidente quanto questa retorica che divide la “gente normale che lavora” dai “radical chic in bicicletta” sia completamente anacronistica e alimentata da un conservatorismo furbo che blocca un’evoluzione sana e migliore degli spazi cittadini. È un cambio di mentalità, e quindi sarà sicuramente più lento, ma è attraverso delle infrastrutture che funzionano e che migliorano il modo di vivere di tutti che concretamente le dicotomie facili si sgretolano perché si dimostra quanto siano insensate. Avremmo bisogno di tutto questo. Nel frattempo, abbiamo bisogno banalmente di uscire di casa la mattina senza pensare che potremmo essere noi la prossima vittima su due ruote nel traffico di Milano. Credo che intanto possa bastare.