Attualità | Stati Uniti

Hunter Biden, nemico pubblico numero uno

Divorzi, scandali, tossicodipendenza: come il figlio del Presidente è diventato il capro espiatorio d'America e suoi i vizi privati uno dei principali ostacoli alla rielezione del padre.

di Giulio Silvano

Se non puoi attaccare il Presidente su quello che fa, attacca la sua famiglia. Sembra questa la strategia di un Partito repubblicano in crisi, costretto, nelle sue divisioni interne tra vecchio establishment e alt right, a trovare una lotta comune nella demonizzazione del figlio del Presidente americano. Hunter Biden, il secondogenito cinquantatreenne di Joe, è il bersaglio preferito nel tentativo di scardinare la Casa Bianca. Joe Biden, già vice di Barack Obama, e ora in corsa per un secondo mandato da pluriottantenne, ha una tragica storia famigliare. Quando era appena stato eletto al Senato a 29 anni, la moglie Neilia e la figlia Naomi, di un anno, erano morte in un incidente stradale. Era il 1972. In macchina c’erano anche gli altri due figli, Joseph III detto Beau e Hunter, che avevano 4 e 3 anni e che tornarono a camminare dopo qualche mese di ospedale. Poi il vedovo Joe si è risposato con Jill, l’attuale First Lady.

Beau è sempre stato il prediletto, a lungo considerato l’erede naturale per seguire il solco politico del papà. Studi impeccabili nelle stesse università del padre, poi in Kosovo con l’Osce e veterano nella guerra in Iraq (elemento molto appetibile dei cv politici Usa), famiglia perfetta, venne eletto procuratore generale del Delaware, impegnato a mandare in carcere gli stupratori pedofili, e si iniziava già a parlare di lui per il Senato. Poi è morto di cancro al cervello nel 2015, a 46 anni. Il suo fratellino Hunter invece, dopo Yale, ha avuto il primo lavoro in un’azienda che aveva fatto delle generose donazioni al padre, si è dato al lobbysmo, ha lavorato con un’azienda cinese e alla fine in una ucraina. Campi minati, tanto che Donald Trump telefonò a Zelensky, prima dell’invasione, per chiedergli se aveva delle informazioni su giri loschi negli affari di Hunter, informazioni che potesse usare come arma politica. Il secondogenito, poi, aveva provato a entrare in marina ma era stato rifiutato perché nel sangue aveva tracce di cocaina. Ha divorziato dalla prima moglie e poi ha avuto una storia con la vedova del fratello Beau, durata un paio d’anni, per poi risposarsi nel 2019. «In certi periodi fumavo crack ogni 15 minuti», racconta Hunter nel suo memoir, Cose belle, dove incolpa la sua instabilità all’incidente in macchina.

Sembra il plot di un film, un cliché. Il politico di provincia che segue un perfetto cursus honorum fino a Pennsylvania Avenue, e che ha due figli, il delfino favorito, il vincente, che muore, e quello disastrato che rischia in continuazione di discreditare tutta la famiglia. Breitbart, sito di estrema destra dove ha lavorato a lungo Steve Bannon, ci ha addirittura fatto un film, pagato con il crowdfunding: My son Hunter – La famiglia viene prima di tutto (si trova su YouTube). Vediamo il personaggio di Hunter come un depravato party boy in combutta con businessmen internazionali che potrebbero mettere a rischio il padre, anche lui coinvolto in un vortice di torbidi segreti, mentre una giovane ed eroica agente dell’Fbi cerca la verità. Alla prima, a Los Angeles, c’erano dei premi in palio per i presenti tra cui un bong e una forma di parmigiano, perché nel suo libro Hunter racconta di essere arrivato anche a fumarsi del formaggio grattugiato quando finiva la droga.

Ottenuta nel 2022 la maggioranza alla Camera, i repubblicani hanno iniziato a cercare il modo di arrivare tramite la giustizia ad Hunter, ma fino ad ora non c’è ancora niente che regga. Ad oggi hanno giusto trovato qualche piccolo reato minore nelle dichiarazioni dei redditi e nel possesso di armi da fuoco, e Hunter si è dichiarato subito colpevole, non dando adito a show legali che tanto avrebbero appassionato tabloid e deputati del Gop. Ma il figlio del Presidente, che dopo gli scandali vorrebbe mollare ogni legame con il mondo politico dandosi alla pittura, continua a far parlare di sé per la sua vita privata. Prima è saltato fuori che aveva una figlia non riconosciuta con una donna in Arkansas e che è stato costretto a fare un test del Dna e a pagare gli alimenti. Tra le altre cose non voleva che la bambina portasse il nome Biden, cosa che invece la madre avrebbe preferito. Ora la cosa è stata risolta tra gli avvocati, ma ha attirato i riflettori dei Repubblicani. Poi sono saltate fuori delle foto di Hunter alla guida di una Porsche, sulla strada per Las Vegas, mentre fumava del crack, andando ai duecentosessanta allora. Sono foto vecchie, ma che continuano a perseguitarlo. C’è da dire che Hunter, nella goffaggine impostagli dal suo ruolo narrativo, non sembra aiutare il padre. Per unire René Girard e Giulio Andreotti, Hunter Biden è un capro espiatorio “che se la va cercando”.

Certo, è una grande responsabilità quella di essere il potenziale ago della bilancia per la tenuta democratica della più grande economia del mondo. “Hunter Biden metterà in pericolo la campagna elettorale del padre?” titolava il New Yorker nel 2019. E poi i Repubblicani stanno pescando con le bombe a mano, cercando di colpire dappertutto per riuscire a tirare fuori qualcosa di legalmente rilevante, nella speranza che un po’ di marcio prima o poi esca fuori. Per ora tutto gira intorno ai vizi nemici numero uno dell’America puritana: stimolanti e fedifraghia, droghe e distruzione della famiglia tradizionale. E anche questi sembrano scelti da uno sceneggiatore degli anni maccartisti, mancano giusto comunismo e sodomia. Ma stanno spuntando altre storie: per esempio, Hunter avrebbe scritto dei messaggi per ottenere dei pagamenti da un’azienda cinese usando a proprio vantaggio il nome del padre.

Se Trump ha trattato la Casa Bianca come una corte monarchica, sistemando amici e familiari nel gabinetto presidenziale (ma del resto l’aveva fatto anche Kennedy), o usando i figli del primo matrimonio come strumenti di propaganda, Joe Biden preferirebbe che Hunter si facesse vedere il meno possibile, invece di finire sulle prime pagine di New York Post. Qualcuno ripeteva in Gomorra, la serie: «E figlie so’ lacrime e sango, lo sapete», e si spera non costino a Biden altri quattro anni alla Casa Bianca.