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Greta Thunberg continua a farci arrabbiare

La bambina attivista è diventata l'adulta che nessuno si aspettava: parla sempre di crisi climatica ma si schiera anche a favore dei palestinesi, dei curdi, degli operai licenziati. Fa politica, tanti la ammirano e altrettanti la detestano.

di Ferdinando Cotugno

Conosciamo Greta Thunberg da quando scrisse «skolstrejk för klimatet», sciopero scolastico per il clima, su un cartello, si sedette da sola davanti al parlamento di Stoccolma e inavvertitamente cambiò il mondo. Era l’estate del 2018. Apparve come una supernova nel nostro smarrimento ecologico, da allora è stato tutto veloce, la sua prima scena globale se la prese pochi mesi dopo. Tre minuti di intervento nella plenaria della COP24 di Katowice, in Polonia. Quel tre minuti cominciavano così: «Il mio nome è Greta Thunberg, ho quindici anni e sono svedese, qui parlo a nome della giustizia climatica». La storia puoi farla anche con parole semplici, quella ragazzina si esprimeva con un filo di voce, aveva le trecce e una camicia a scacchi.

Se siamo stupiti di chi è diventata oggi Thunberg è perché ci siamo concentrati sulle trecce e la voce e non l’abbiamo ascoltata con attenzione. Si stupisce soprattutto chi l’ha sempre chiamata per nome, Greta e non Greta Thunberg, sperando che bastasse la perenne infantilizzazione delle persone giovani per disinnescarla. È per questo che oggi c’è chi non capisce perché Greta Thunberg si schieri con il popolo palestinese, contro il genocidio di Gaza, con i curdi, o perché partecipi alle assemblee delle fabbriche in lotta come la ex GKN di Campi Bisenzio. Ci stupiamo perché non ascoltiamo le persone, le guardiamo e basta, e da lì ci facciamo delle idee invece di ascoltare le loro, e poi pretendiamo di non dover cambiare mai più le loro opinioni. Invece Greta Thunberg sta cambiando: la coerenza interna di una persona nel tempo funziona in modo diverso da quella di un meme. Per fortuna.

I tre minuti di Katowice erano già radicali come Greta Thunberg oggi, dentro c’era tutto quello che serviva sapere. Era stata anche vagamente minacciosa, quando aveva chiuso il suo intervento con queste frasi, rivolte ai capi di governo presenti: «Non siamo venuti qui a implorarvi. Il cambiamento avverrà, che voi lo vogliate o no. Il vero potere appartiene alle persone». Mic drop. Tre mesi dopo c’erano milioni di persone, tendenzialmente della sua età, nelle piazze del mondo. Accade una volta ogni generazione che un’attivista così radicale diventi anche così esposta e popolare, che tocchi tante corde tutte insieme e che l’aumento di popolarità non ne smorzi la carica politica.

Da allora è stato un lungo viaggio, Greta Thunberg ha fatto molte cose, ma sono interessanti anche quelle che non ha fatto. Non ha fondato un partito, non ha scelto di candidarsi a niente, non ha trovato Gesù come la compagna di lotta Vanessa Nakate, è cresciuta insieme al movimento che aveva ispirato sei anni fa, ha saltato molti giorni di scuola, poi l’ha conclusa, nel frattempo ha tenuto il passo del mondo e dei suoi eventi, reagendo di conseguenza, conservando il piano di fare una vita legata alla politica (dove si vede tutto collegato) e non al marketing (che invece funziona per compartimenti stagni). Lei ha scelto di stare nel mondo e non su uno scaffale: se non vi piace cosa è diventata Greta Thunberg, probabilmente è perché non vi piace (magari giustamente) cosa è diventato il mondo.

L’ossessione collettiva per Greta Thunberg è in corso da sei anni e dice poco di lei, ma molto di noi, di come funzioniamo, di cosa cerchiamo di fare alle icone che creiamo, quel ciclo accelerato di santità e vergogna che sembra muovere ogni sfera pubblica. Appena un personaggio mostra una carica di integrità, il primo istinto collettivo è capire come si disinnesca quella carica, come rompere il giocattolo nuovo, perché non c’è niente che troviamo più insopportabile dell’idealismo. Il problema è che spesso è davvero facile rompere le icone pubbliche, perché in generale quelle si disinnescano in autonomia: basta attivare il loro ego e faranno tutto da sole, permettendoci di assistere al rassicurante spettacolo dei santi dopo tutto sono come noi, meschini, ladri, violenti, corruttibili, inclini alla comodità e alla vanità. Abbiamo esempi del genere in continuazione.

Per capire, interpretare e navigare il mondo ci affidiamo a specifiche figure, che a un certo punto ci deluderanno, non tanto perché sono deludenti, ma perché il potere di cui le investiamo trasforma esseri umani mediamente decenti in orrendi disastri autodistruttivi. Non che Thunberg sia migliore o peggiore delle persone a cui è toccato questo destino, è impossibile saperlo (e forse è anche irrilevante). Quello che è interessante è come lei sia riuscita a non abboccare a queste trappole che tante vittime hanno fatto. Ogni volta che è stata di fronte alla scelta tra farci arrabbiare e deluderci, ha sempre scelto la prima. Ed è stato uno spettacolo interessante, vedere generazioni di «adulti» triggerati dalla sua invulnerabilità a questo meccanismo. Questi anni di Greta Thunberg sono stati anche un saggio di come può essere un’azione politica senza il predominio dell’ego.

Questo le ha permesso di sottrarsi al ruolo che era stato disegnato per lei. Al mondo serviva una Cassandra bionda tascabile per farci annuire quando ci ricordava le nostre malefatte collettive, farci sentire in colpa una settimana all’anno e un giorno in cambio magari darle il premio Nobel per la pace. Tutte aspettative che lei ha serenamente distrutto. Quelle infantili, in fondo, siamo noi, non lei. Di «Greta» ci piacevano i primi dischi, sulle COP e sul clima, ora che c’entrano i palestinesi? Sul Corriere, più di un anno fa, all’inizio della bizzarra polemica sul suo antisemitismo, Massimo Gramellini scrisse: «C’era una volta un’ambientalista svedese, giovane e determinata, che se la prendeva con chiunque inquinasse l’aria e arrostisse la Terra». Poi lei ci ha rovinato la favola, rinunciando alla specializzazione, uscendo dal cassetto in cui l’avevamo inserita. Come si permetteva?

Ancora una volta, il problema non è chi crediamo debba essere Greta Thunberg, ma cosa crediamo sia il clima, che non è solo una questione di termodinamica ed ecologia. Thunberg, e tantissime altre persone come lei e con lei, hanno seguito la traiettoria del clima come problema complesso, un filo che una volta tirato rivelava i compromessi, i guasti, i rapporti di potere e le ingiustizie della civiltà umana.

Thunberg non è mai stata una leader politica, né ha mai ambito a esserlo. È un termometro, non una bandiera. Va dove crede sia importante, e questo è per noi uno strumento per leggere il presente, forse il modo più evoluto di usare la parabola di Thunberg per capirci qualcosa del mondo. Non tanto porci il problema di essere d’accordo o in disaccordo con lei, (quanto sono patetici i politici e affini che cercano tutti i giorni di litigare con una ventenne che li ignora ogni volta?) ma come strumento di misurazione del mondo, come carotaggio del presente. Nel 2018 parlava di emissioni, nel 2020 di decolonizzazione, nel 2022 di capitalismo, e poi di militarismo, guerra, fabbriche, Gaza, Georgia, dove è stata a sostenere le proteste e contestare la COP29 in Azerbaijan.

Non si può non essere curiosi di cosa sarà, come sarà, chi sarà Thunberg a trenta, o cinquant’anni. Intanto il 3 gennaio compie ventidue anni. Come tutti gli esseri umani, spesso avrà torto e spesso ragione, e cambierà idea, perché cambierà il mondo e cambierà pure lei. Poi crescerà ancora, e infine invecchierà, e arriveranno persone con idee più nuove, più radicali, a un certo punto, in una forma o nell’altra, diventerà anche lei establishment. Viste le premesse, sarà interessante vedere come, e dove. Gramellini chiudeva il suo articolo sulla delusione Thunberg così: «Greta ha smesso di essere di tutti. Adesso è di parte anche lei. Forse è diventata grande. Di sicuro, più piccola». Sarebbe stato bello se lei gli avesse risposto come Norma Desmond in Viale del tramonto. «Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo».